Siete mai stati alla Buca delle Fate? No? Allora questa è l’occasione buona, venite con me! Partiamo di buon mattino e prendiamo l’Autostrada A 12 fino a Cecina. Da lì si prosegue sulla Statale Aurelia fino a San Vincenzo, per immetterci poi nella strada provinciale della Principessa, che abbandoniamo dopo alcuni chilometri per arrivare al Golfo di Baratti. Siamo in inverno e qui, ora, c’è una pace irreale: con la buona stagione la zona infatti è frequentatissima, ma ora è tutto nostro.
Il golfo si apre davanti a noi con la sua lunga spiaggia dai riflessi ruggine ed è difficile pensare che, fino a poco più di un secolo fa, questo paradiso in terra è stato una…discarica. La storia del golfo infatti è legata alle miniere di magnetite dell’isola d’Elba. Il prezioso materiale, per essere trasformato in ferro, abbisognava di grandi quantità di carbone che dessero il calore necessario per arrivare, tramite rudimentali altiforni, alla fusione. In poco tempo le riserve lignee dell’isola si esaurirono, per cui la lavorazione si spostò sulla terraferma dove le foreste abbondavano. Le navi provenienti dalle miniere approdavano sulla spiaggia di Baratti e qui la popolazione di Populonia (antica Popluna), che a quel tempo si trovava alla base del colle sul quale sorge attualmente, procedeva all’abbattimento delle foreste, alla trasformazione del legno in carbone, alla costruzione degli altiforni ed alla fusione della magnetite dalla quale si ricavava il ferro per attrezzi ed armi.
Tutto questo generava enormi residui di lavorazione, anche perché il materiale veniva sfruttato per meno del 50 per cento. Col tempo i residui si accumularono, prima sulla spiaggia e poi nell’entro terra fino a formare uno strato di detriti ferrosi alto sei metri che arrivò a ricoprire addirittura i tumuli della necropoli di San Cerbone del VII secolo a. C. Si calcola che nei secoli furono lavorate due milioni e mezzo di tonnellate di materiale.
Al tempo di Augusto l’Impero si estendeva ormai fino al nord Europa dove furono scoperte miniere di ferro ben più redditizie e di migliore qualità. L’attività di Populonia, anche per l’esaurimento delle foreste, andò man mano scemando fino a cessare del tutto, lasciando il paesaggio inalterato fino all’inizio del secolo scorso quando, con l’avvento delle acciaierie di Piombino e le nuove tecniche di lavorazione, divenne conveniente utilizzare le scorie ferrose e financo esportarle.
Nel giro di una sessantina d’anni tutto tornò come ci appare oggi compresa la riscoperta della necropoli di San Carbone conservata intatta sotto le scorie per 2700 anni.
Ci incamminiamo dunque, abbandonando la spiaggia, attraverso la pineta verso la collina e ben presto ci inoltriamo su per un bel sentiero in mezzo alla macchia mediterranea; saliamo fino a quota 202 in prossimità di Populonia, dove incontriamo un parcheggio per auto e subito dopo un bivio; teniamo la destra e cominciamo la discesa prendendo il sentiero 301. Lungo il cammino, sotto frondosi lecci, ci capita di osservare numerose piante erbacee curiosamente simili al prezzemolo: è la velenosissima cicuta i cui effetti su Socrate sono stati ampiamente raccontati.
Il sentiero è ben marcato e per nulla faticoso, la temperatura è perfetta e l’aria, uscendo dal bosco, profuma di elicriso; ogni tanto si incontrano delle tombe ipogee etrusche scavate nella roccia. Dopo poco più di un’ora, ecco finalmente, in basso, il mare e laggiù a sinistra la Buca delle Fate, una stupenda insenatura di rocce incastonata fra il promontorio della Stella ed il promontorio dello Stellino.
Riguardo all’origine di questi nomi, la leggenda vuole che le Fate, che un tempo albergavano in questa baia, fossero solite rapire gli incauti pescatori che vi si avventuravano facendoli sparire per sempre.
Un giovane, ignaro del fatto, decise di passare da lì per raggiungere più rapidamente la sua amata e, vedendo un magnifico fiore giù nella baia, scese per raccoglierlo e farne dono a colei che stava per raggiungere, ma, appena raccolto il fiore, fu avvolto da un insolito profumo e sparì. La fanciulla attese invano ed intuendo la sorte capitata al suo amato bene, si recò alla baia e pianse tutte le sue lacrime pregando le Fate di restituirgli il suo amore, ma invano.
Finché un delfino, impietosito da quei lamenti, raccolse una lacrima e la trasformò in una magnifica perla che portò alla Fate chiedendo in cambio la libertà del giovane. Costoro, che non avevano mai visto una perla di tale bellezza, acconsentirono allo scambio, liberando il giovane che, subito, poté raggiungere la sua amata e con essa fuggire verso casa. Le Fate, però, ben presto si pentirono e cominciarono ad inseguirli nel bosco. Stavano per raggiungerli quando il dio Nettuno in persona pensò di donare una stella alle Fate per placarne la furia; raccolse una stella dal firmamento, ma gli scivolò di mano e si ruppe in due pezzi con un enorme bagliore. Le Fate abbacinate ed affascinate da tanta luce, dimenticarono i giovani che poterono così mettersi in salvo. I due pezzi di stella caddero nella baia dando vita ai due promontori che ancora oggi portano i nomi che ricordano quel miracolo.
Incantati dalla bellezza del luogo sostiamo a lungo rifocillandoci sotto il pallido sole dicembre. Sulla via del ritorno, con una breve deviazione verso il promontorio Stella, ci soffermiamo ad ammirare le rocce sagomate dai marosi e dal vento con dei curiosi buchi che, sempre secondo la leggenda, sono dovuti ai frammenti della stella spezzata.
Risaliamo la collina e, giunti al parcheggio che abbiamo incontrato all’andata, ci dirigiamo verso l’abitato di Populonia situato alla sommità della collina. Si tratta di un piccolo e grazioso borgo, ormai con pochi abitanti, dominato da un’imponente rocca che risale al XV secolo dalla sommità della quale si gode uno spettacolo mozzafiato su tutto il golfo di Baratti.
Ormai è sera e seguendo la strada asfaltata scendiamo al porto. Ci aspetta ancora oltre un chilometro di cammino sulla spiaggia resa scura dai minuscoli detriti di ferro presenti in quantità e finalmente raggiungiamo la macchina per tornare a casa.