parte terza
Se all’interno le cose non sono cambiate di una virgola, nei campi profughi del Bangladesh, che accoglie i rifugiati rohingya dal 2012, la situazione è peggiorata, semmai fosse possibile. Ad oggi, sono più di un milione le persone che vivono nei campi bangladesi. La stragrande maggioranza di essi vive nei 33 insediamenti delimitati dal filo spinato, che formano l’immensa baraccopoli di Kutupalong, il più grande campo profughi del mondo, nella regione di Cox’s Bazar, all’estremo sud del Bangladesh. Prima del grande esodo del 2017, erano già centinaia di migliaia i profughi rohingya che avevano trovato rifugio qui. Poi, il grande esodo di sei anni fa: altre 650mila persone in fuga dagli orrori perpetrati dal governo birmano, si sono riversate a Kutupalong in poche settimane. Il campo si è allargato oltre ogni luogo del genere esistente al mondo. La morfologia del territorio – disboscamenti e spianamenti – è stata modificata per permettere la costruzione di decine di migliaia di capanne in bambù. Ci sono strade principali in cemento e mattoni, da cui si dirama una folle matrice labirintica di vicoli in terra battuta. Si sono scavati pozzi artesiani per l’approvvigionamento dell’acqua, ma quest’ultima scarseggia sempre, anche se la regione è molto piovosa. Non c’è una rete fognaria, e i servizi igienici non sono altro che latrine, praticamente, a cielo aperto. Chi lo ha visitato racconta di un luogo infernale, dominato da un fetore pestilenziale. Nonostante questo, Kutupalong ha sviluppato, negli anni, le dinamiche di una vera e propria città, anche grazie all’impressionante dispiegamento di varie agenzie umanitarie che hanno offerto un impiego ai rohingya, soprattutto a quelli dotati di un minimo di conoscenza della lingua inglese e di competenze tecniche: sono nate attività commerciali, scuole e ambulatori medici. A fronte di queste iniziative positive, si registra una qualità della vita degna di un incubo. Le autorità bangladesi hanno attuato una politica ambivalente, che non ha aiutato il campo a svilupparsi nella direzione di un livello accettabile di qualità della vita. Se da una parte si sono mostrate collaborative, accogliendo i profughi e spendendo risorse nella costruzione e nella gestione del campo dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico, dall’altra costringono la popolazione rohingya a tutta una serie di restrizioni sociali che la privano di molte libertà e diritti, rendendo la stanzialità a Kutupalong un qualcosa di molto vicino ad un’immensa prigione a cielo aperto. Per legge i rohingya non possono essere assunti da alcuna azienda bangladese. Lavorare fuori dal campo, quindi, è illegale e molto rischioso. Si rischia l’arresto o di dover pagare un pizzo alle bande criminali che agiscono quasi indisturbate all’interno della struttura. La polizia può, in ogni momento, fare irruzione e chiudere qualunque attività commerciale, in quanto manchevole dei permessi governativi. Le autorità hanno recentemente posto restrizioni alla costruzione di nuove scuole e, nel 2019, proibito l’uso dei cellulari. Persino muoversi all’interno del campo è un’attività soggetta a delle limitazioni. Tutto questo alimenta nei profughi un senso di perenne incertezza e la sensazione che la loro stessa esistenza, in quanto popolo, sia in continuo pericolo di annientamento, che ha portato all’aumento della tossicodipendenza e della criminalità. Le donazioni e il sostegno internazionale stanno calando, determinando un calo drastico nella disponibilità giornaliera di cibo. Se non cambia qualcosa nei prossimi anni, la malnutrizione che deriverà da questo fenomeno di progressivo “distacco” dagli impegni presi, porterà ad un peggioramento delle condizioni di salute, già duramente messe alla prova dalla drammatica insalubrità che caratterizza le strade e le capanne del campo, soprattutto nella stagione dei monsoni, quando vicoli e pavimenti diventano una sorta di sconfinata palude. Nonostante questo, ogni anno, a Kutupalong, nascono 30mila bambini. Una natalità impressionante, se rapportata alle condizioni di vita e al numero di residenti. Molti di questi neonati presentano già segni di malnutrizione. Nei prossimi mesi questa tendenza aumenterà mettendo la loro vita a forte rischio. Nel campo è tutto difficile, anche ottenere un certificato di nascita per il proprio figlio, soprattutto se quest’ultimo non nasce in una delle cliniche autorizzate. Gli stupri e le violenze, spesso mai denunciati, sono all’ordine del giorno. Si più rischiare la vita per una tanica d’acqua, per un pezzo di pane o una bombola del gas. Oppure semplicemente mentre si cammina, rimanendo coinvolti in una sparatorie tra bande rivali. Ci sono anche queste a Kutupalong. Ogni giorno le loro fila s’ingrossano di ragazzi che vedono nell’affiliazione criminale, l’unico futuro possibile. Attualmente le bande lottano per il controllo del traffico di yaba, una miscela di metanfetamina e caffeina prodotto in Birmania, ma per la quale il Bangladesh rappresenta un importante mercato.
continua…