È una zuppa di origini contadine, bionda, screziata di verde scuro. Solo a guardarla, mentre fuma calda, è invitante. È fatta con la polenta bramata e foglie di cavolo nero. Pare che sia chiamata anche minestra medicea, perchè i Medici la offrivano agli ospiti nel loro Castello di Cafaggiolo. Un primo dal sapore antico, vellutato, eppure leggermente granuloso, semplice e nobile allo stesso tempo. A Firenze si può gustare in diverse trattorie, ottima da Burde, Ruggero o Cibreo. Spesso la mangio, rigorosamente nel periodo invernale, in una trattoria casalinga alla buona, in collina, che incontro sulla via per la campagna.
Quando ero una ragazzina, in casa nostra, la farinata col cavolo nero metteva tutti di buon umore. Mi ricorda certe domeniche mattina, fredde di ozio e malinconia, in cui mia madre annunciava che avrebbe preparato la farinata: “Per scaldarci l’anima” diceva. Il cavolo nero lo avevamo riportato dalla campagna il giorno prima. Era di dicembre o di gennaio. Più il cavolo era stato esposto al gelo e più buono sarebbe stato da mangiare. Lo raccoglievamo noi stessi. Si dovevano prendere le foglie dal basso verso l’alto per lasciare la pianta integra al centro, tanto da farle riprodurre nuove foglie. Nel piccolo campo questa variante “acephala” della “Brassica oleracea” campeggiava in forma di piccole palme. Intorno solo zolle dure. Tornavamo al chiuso con il nostro bottino, soddisfatti che la larva cavolaia non avesse infestato e bucherellato le piante, come era successo qualche volta in passato. Mi hanno sempre affascinato il colore, verde scuro scuro tendente al blu e la consistenza delle foglie: bollosa, turgida, resistente. In altre lingue viene chiamato “cavolo riccio” o cavolo dinosauro“. Dicevamo sempre che ci avremmo fatto i crostini, ricetta veloce e gustosa. Poi, puntualmente, una volta a Firenze, mia madre cambiava idea. Io ero molto contenta perché la farinata col cavolo rappresentava, per me, quello che è ben descritto dall’espressione americana “comfort food“. Scalda il corpo, ti coccola e ti fa sentire in sintonia con la stagione e con il territorio in cui vivi.
Il cavolo nero ha origini lontanissime, venne lodato anche da Plinio il Vecchio e Catone. In Toscana è sempre stato molto coltivato e reperibile, per la sua bontà e per perpetuare la tradizione di piatti cardine come la ribollita. Nelle altre regioni italiane si trova meno facilmente, benché ultimamente sia piuttosto di moda.
Per preparare la zuppa ci vogliono, oltre alle foglie del cavolo a striscioline (i gambi duri vanno scartati), l’olio buono, la farina di mais bramata, un trito smilzo di cipolla e carota, ma è sufficiente anche solo dell’aglio, il sale, il pepe, qualche spezia come il timo, e, se si vuole realizzare una variante più corposa, si aggiungono i fagioli (meglio cannellini o zolfini, ma anche borlotti e qui si scatenerà l’inferno) e del pomodoro, ma non tutti lo mettono. In altre province toscane l’ “incavolata” la si prepara anche con tutte le verdure, come se fosse un minestrone. Io sono fiorentina con origini pistoiesi e nella nostra famiglia vinceva la variante povera.
A volte mia madre o mio padre hanno provato a farla più ricca, come se fosse una ribollita con la farina di mais, per poi sempre ritornare alla versione “francescana“. A Pistoia, luogo da cui pare abbia origine, questa minestra viene chiamata “farinata con le leghe“. Le leghe non sono altro che le striscioline di cavolo nero. Non la si deve scambiare per la minestra di cavolo nero, che non prevede l’uso della farina gialla e che ha origini ancora più lontane. Cecco Angiolieri, i cui principali interessi erano “le donne, la taverna e il dado”, era un grande estimatore del cavolo nero. Almeno così si dice. In un bel tegame alto si fa sfrigolare il trito del soffritto e l’olio. Poi si aggiunge il cavolo tagliuzzato con pazienza e amore. Si fa rosolare e si aggiunge un po’ di passata di pomodoro. Quando tutto è ben amalgamato, dopo almeno cinque minuti, si aggiunge l’acqua calda. Si copre con un coperchio e si lascia cuocere per mezza ora, anche tre quarti d’ora. Molti aggiungono i fagioli passati, non mia madre. Segue poi l’operazione più difficile, vale a dire, si lascia cadere a pioggia la farina gialla bramata, quella più grumosa che andrà a fondersi col cavolo, regalandogli la dolcezza che mitiga il suo sapore amarognolo. Non si può commettere l’errore che si formino i grumi, per cui si deve mescolare piano piano. Si lascia cuocere il tutto per 40 minuti, girando di frequente con il mestolo.
La farinata si serve caldissima in terrine di coccio. Ancora un filo d’olio a crudo, un pizzico di pepe e si potrà gustarla annaffiata da un buon Chianti Classico. Il legame colla madre terra è assicurato.
Vi è venuta voglia di prepararla, questa zuppa? Se dovesse avanzare, il giorno dopo si può friggere o, ancor meglio, riscaldare in padella schiacciandola con la forchetta e aspettando che formi delle crosticine dorate e scricchiolanti che tutti si litigheranno.
Foto copertina di Silvia Meacci