Colpevoli di esistere – seconda parte
A capo del governo, in Birmania, forte di una celebrità quasi mistica, c’è Aung San Suu Kyi: paladina dei diritti umani, leader indiscussa del paese, protagonista di una lunga lotta personale per il ritorno alla democrazia della Birmania, simbolo della perseveranza, icona dell’idealismo, incarnazione del sacrificio, voce e anima di un popolo da sempre oppresso, più volte arrestata e costretta a passare lunghi anni in carcere o ai domiciliari, e insignita, nel 1991, del premio Nobel per la pace. Trionfatrice alle elezioni del 2015, dopo il suo ritorno alla libertà nel 2010, Aung San Suu Kyi e il suo partito, hanno forti legami con le fazioni estremiste nazionaliste del Rakhine, ferocemente anti rohingya. Il suo silenzio sull’accaduto dura mesi ed è assordante. Quando lo rompe, il 19 settembre, il discorso che pronuncia è pieno di non detti. Non cita mai la parola “rohingya”, per paura che, facendolo, possa dare adito alla speranza dei rohingya di essere finalmente riconosciuti, di riappropriarsi dei diritti tolti, e di far parte del tessuto sociale birmano. La mancanza di qualunque riferimento identitario, naturalmente, è necessaria anche, e soprattutto, per non fare innervosire più di tanto una parte importante dell’apparato delle alleanze razziste che la sostiene, e che ha fortemente contribuito al suo rilascio e alla grande vittoria elettorale del 2015. Appellandosi all’impossibilità, sancita dalla costituzione, da parte del governo di aver alcun controllo sull’operato delle forze di polizia e dell’esercito, Aung San Suu Kyi ha dichiarato che il suo esecutivo non sapeva esattamente cosa stesse succedendo nel Rakhine, e che stava cercando di scoprirne le motivazioni. Una presa di posizione debole a cui non ha creduto nessuno, ma utile a trovare consenso all’interno del paese. Durante i massacri e la fuga dei rohingya, due coraggiosi giornalisti della Reuters avevano fatto luce sugli avvenimenti, ma a causa di quanto pubblicato e del materiale a loro sequestrato in attesa di pubblicazione, erano stati condannati a sette anni di carcere. L’odio razziale dei birmani nei confronti dei rohingya è talmente profondo e generalizzato, che l’opinione pubblica ha giudicato i due giornalisti dei “traditori”, per la loro coraggiosa ricerca della verità e la pubblicazione di quanto scoperto sulle atrocità dei militari. I social sono stati invasi da commenti che abbracciavano tutto l’arco della denigrazione: dai semplici insulti, alle accuse di morte più o meno velate.
La posizione ambigua di Aung San Suu Kyi le è valsa un vasto disconoscimento internazionale, culminato nel 2019 con la denuncia per genocidio, presentata nei suoi confronti dal Gambia presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. Anche in quella sede, nonostante un discorso di tremila parole in cui ha cercato di convincere la corte che le accuse di genocidio erano infondate, non ha mai fatto riferimento diretto ai rohingya, sostenendo che ogni azione nei loro confronti era stata una risposta militare agli attacchi terroristici. Nonostante questo notevole sforzo retorico, il suo discorso è risultato poco plausibile, e non ha fatto altro che aumentare le ombre sulla sua figura. Le argomentazioni a difesa del suo operato, sono state clamorosamente smentite nel 2020, quando la Corte ha decretato l’esistenza di un “rischio reale e imminente di un pregiudizio irreparabile per i diritti” dei Rohingya, giudicando gli sforzi del governo a loro protezione, magnificati da Aung San Suu Kyi nella sua requisitoria difensiva l’anno prima, largamente insufficienti. La Corte ha quindi ordinato alla Birmania di ripristinare e proteggere i diritti dei Rohingya, e di provvedere al loro ritorno. Ma oggi, a quattro anni dalla storica sentenza, votata con una rara unanimità dai 17 giudici, e a sette dai massacri che hanno portato all’esodo nel Bangladesh, niente di tutto ciò è avvenuto. Il 1°febbraio 2021 Aung San Suu Kyi è stata arrestata, e il suo governo rovesciato, da una giunta militare, secondo cui le elezioni del 2020, vinte ancora dal suo partito, erano state caratterizzate da gravi frodi. Accusata di corruzione, importazione di walkie talkie, violazione della legge sui disastri nazionali, di quella sul segreto di stato, e sull’emergenza per il coronavirus, il premio Nobel è stata condannata, nel corso di numerosi processi, ad un totale di 33 anni di carcere, che sta scontando agli arresti domiciliari nella capitale Naypyidaw.
È abbastanza chiaro che, fosse anche solo per riabilitare il suo nome, probabilemente Aung San Suu Kyi avrebbe cercato di mettere in atto quanto ordinato dall’alta corte, ma in un contesto come quello attuale la questione è destinata a rimanere sul tavolo per molto tempo. Il regime birmano, che oltretutto è severamente impegnato militarmente sul fronte interno, nel tentativo di eliminare un agguerrito movimento di liberazione partigiano, che è asserragliato nelle foreste del paese e che gode dell’appoggio informale della Cina, ha impedito agli ispettori dell’Onu di entrare nel paese, e non sta rispettando gli obblighi di fornire resoconti semestrali dettagliati sulle iniziative a tutela dei Rohingya, imposte al governo precedente dalla Corte.