Mia nonna, classe 1880, era una donnina piccola sempre vestita di nero. Da quando era al mondo, ne aveva vissute di tutti i colori, ma non aveva mai perso quell’energia capace di farle superare i momenti più duri. Noi saremmo stati ore ed ore a sentirle raccontare gli episodi salienti della sua vita, come, ad esempio, i moti di Lunigiana nel 1894, di cui ricordava con sgomento le cariche di cavalleria del Regio Esercito contro i manifestanti che erano scesi in Piazza Alberica, per protestare contro lo stato d’assedio in Sicilia; oppure come la Grande Guerra o l’epidemia di Spagnola che le aveva portato via la sua adorata bambina, mentre lei stessa si trovava in fin di vita al lazzaretto, o, ancora, gli anni di apprensione per il nonno, irriducibile anarchico, durante il ventennio e, infine, la Seconda Guerra Mondiale con tutte le tribolazioni che la gente aveva sofferto nei lunghi mesi di combattimento sulla Linea Gotica.
Ormai vedova, abitava con noi e con l’avanzare degli anni dedicava sempre più il suo tempo alla lettura, anche se da un occhio ci vedeva pochissimo, suppliva alla bisogna con l’altro, aiutandosi con una lente, che lei chiamava “caramella”. A quel tempo, siamo alla fine degli anni quaranta, settimanalmente arrivava un omino che portava alle famiglie le “dispense”, ossia dei capitoli di romanzo che la nonna leggeva ed a fine settimana restituiva e, previo pagamento di una modica cifra, si faceva consegnare il capitolo successivo. Così riuscì a leggersi “I Miserabili” e poi i romanzetti rosa di Delly e qualsiasi altra cosa che le capitava sotto tiro, pardon sotto caramella. Ma la sua vera passione era il settimanale CRIMEN che riportava in poche pagine i fatti di cronaca nera più salienti, tipo il caso Bellentani, ampiamente documentati con fotografie talvolta agghiaccianti. E qui entravamo in ballo noi bambini, che, ogni volta che usciva CRIMEN, venivamo catechizzati sul come dovessimo prestare attenzione a chi si avvicinava, specie se con l’intento di donare caramelle. Se poi capitava che un bambino venisse rapito e ucciso da un bruto, apriti cielo! La catechesi durava tutta la settimana ed era impossibile sottrarvisi.
Carrara, la città, in fondo alla collina sulla quale abitavamo, era ben diversa da oggi: il Canal del Rio scorreva ancora all’aperto. In effetti era poco più di un rigagnolo di acque non sempre cristalline, ma a noi bastava per organizzare gare con delle barchette ricavate dalle scorze dei pini di una segheria lì vicino. Un giorno, mentre, con mio fratello, stavamo sagomando alcune scorze, si avvicinò un uomo che ci offrì due caramelle chiedendoci se potevamo andargli a comperare le sigarette. Ecco la parola: caramelle cioè pericolo. Uno sguardo rapido d’intesa e poi via come fulmini verso casa lasciando il pover’uomo a bocca aperta. Lui non sapeva di CRIMEN!
Successe che nel 1950 la mamma dovette subire un’operazione presso l’ospedale di Livorno e che fu prevista una degenza di un mese. In sua assenza la nonna prese le redini della casa, per cui, tutte le mattine, prima di andare a scuola – io frequentavo la prima elementare e mio fratello la terza- partivamo con il suo viatico di raccomandazioni. Dalla Svizzera, per far visita alla mamma, rientrò una nostra cara cugina che era emigrata lassù un paio d’anni prima. Ora non sto a descrivere le tavolette di cioccolato che ci portò in regalo, ma chi aveva mai visto quel ben di Dio? Il giorno dopo, la cugina mi propose di andare con lei a Livorno e io accettai con entusiasmo all’idea di rivedere la mamma. Fu la mia prima volta in treno, una “Littorina” che ci lasciò a Pisa; da qui un altro treno ed arrivammo a Livorno. A confronto della stazioncina di Carrara Avenza quella di Livorno era enorme; c’era perfino il sottopassaggio mentre da noi i binari si attraversavano ancora in superfice. L’ospedale era immenso, un gran corridoio di mattonelline rosse esagonali, che in parte ci sono ancora, e poi una camerata con un numero impressionante di letti.
E poi, all’improvviso, una voce mi chiamò ed io volai: l’incontro con la mamma, dopo tanto tempo, fu bellissimo ed io mi sperticai a raccontarle di noi e della nostra vita in sua assenza. Finito l’orario di visita, in attesa del treno che ci sarebbe stato solo a pomeriggio inoltrato, andammo a mangiare qualcosa e poi al cinema a vedere “La Signora delle Camelie” per la regia di Carmine Gallone. A me non piacque molto, tutti quegli strani abiti fronzoluti, e poi non capivo perché quei due dovevano lasciarsi nonostante si volessero bene. Arrivò l’ora del ritorno e così ci recammo in stazione. Ci accomodammo in una sala d’attesa con dei bellissimi divani rossi: la sala era praticamente vuota, solo in fondo ad un tavolo due uomini stavano giocando a carte. Mia cugina doveva spedire delle cartoline e mi disse di aspettarla lì, che andava a cercare una buca delle lettere. Così mi ritrovai solo, in un posto strano, con due figuri che giocavano a carte e che ogni tanto mi guardavano. Finita la partita, i due uomini mi guardarono e poi si alzarono e immediatamente in me scattò la sindrome di CRIMEN. Senza ulteriori indugi mi fiondai verso l’uscita, percorsi il marciapiede e scesi nel sottopassaggio nella convinzione che lì, anche se inseguito, avrei potuto avere delle vie di fuga. Il tutto senza pensare minimamente a che cosa avrebbe provato quella povera donna di mia cugina non trovandomi più. Fortunatamente per lei e per me, la mia fuga non era passata inosservata e in molti avevano notato quel bimbetto che scendeva di corsa le scale del sottopassaggio.
Io me ne stavo lì, appoggiato al muro, senza saper bene cosa fare; non volevo piangere però le lacrime stavano salendo inesorabili. Poi vidi la mia cugina che mi veniva incontro, mi abbracciò forte e, per nulla arrabbiata, mi chiese solamente perché ero fuggito. Fra un singhiozzo e l’altro le raccontai dei due uomini e che la nonna ci diceva sempre di stare attenti. Che cosa avrei dovuto fare? Tornammo a casa felici per lo scampato pericolo con la promessa che l’episodio sarebbe rimasto un segreto fra noi.
Da quella volta non vidi e non sentii più parlare di CRIMEN.