Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò…La canzone L’anno che verrà di Lucio Dalla arrivò subito in testa alla classifica e, diretta come un pugno allo stomaco di tutti gli italiani, lasciò un livido che non si è mai assorbito nei 45 anni che sono passati da quando venne scritta. Era l’inizio del 1979: l’Italia stava sempre più annaspando, tirata giù dal piombo di anni di attentati, stragi, crisi politiche ed economiche, spauracchi di paure mostruose e di brutti ricordi neppur tanto lontani. Ma forse, uno spiraglio di luce, si cominciava ad intravvedere in fondo al tunnel: il foro in cui passava un filo d’aria, abbastanza potente da far sentire a tutti la voglia di lasciarsi alle spalle tutto il buio e di concedersi il lusso di una beata leggerezza. Gli anni ’80 erano dietro l’angolo e anche se nessuno, nemmeno Dalla, aveva la sfera di cristallo, la spinta verso un mondo meno pesante era talmente forte e condivisa da sembrare una divinazione. Forse anche questo spinse Lucio a scrivere quella canzone: la più bella lettera in musica della canzone italiana. A chi si rivolgeva Lucio? Secondo le fonti più ricorrenti a Giuseppe Rossetti, l’amico che lo ospitò nella sua casa di Monghidoro. Alla fine del 1978, dove, sembrerebbe, sia stata scritta la canzone. Rossetti era un’attivista politico che per un breve periodo finì in carcere: Lucio passò la notte di capodanno a far compagnia all’amico arrestato e forse da lì venne l’idea della canzone. Ma si sa di certo che il testo, Dalla lo riesaminò con padre Michele Casali, frate domenicano, bolognese e grande amico del cantautore, che secondo molti sarebbe il destinatario della canzone.
L’anno che verrà chiude il quarto album di Lucio intitolato Lucio Dalla e venne registrata negli Stone Castle Studios, che si trovavano nel castello di Carimate a Como, un luogo costruito appositamente per offrire agli artisti il clima perfetto per concentrarsi sulla loro musica. Con Lucio c’era la sua band: Ron al pianoforte, Ricky Portera alla chitarra, Marco Nanni al basso e Giovanni Pezzoli alla batteria e l’orchestra diretta da Giampiero Reverberi che curò anche l’arrangiamento. Il disco uscì a febbraio del 1979 e consacrò definitivamente Lucio tra i grandissimi della musica italiana: ai vertici delle classifiche come album più venduto di quell’anno seguito, peraltro, da Banana Republic, dello stesso Lucio con Francesco De Gregori. Al netto di un’ esperienza interamente entrata nella memoria musicale di un numero enorme di fan, L’Anno che verrà, divenne simbolo e icona intramontabile come testimoniano le luminarie natalizie di Bologna che, da anni, riportano i versi della canzone e l’essere, di fatto, diventata una specie di inno del Bologna calcio, squadra amata dal cantautore.
Di cosa parlava, Lucio, in quella lettera? Del mondo in quel momento, nella dolorosa fase di passaggio tra due epoche, ma anche di molti momenti che vennero dopo e sicuramente anche di quello che viviamo oggi, anche noi incastrati tra deliri anacronistici di guerra, escalation incontrollate di violenza e valori evaporizzati in effimere apparenze. Raccontava di sogni senza alcuna speranza, a parte quella di far nascere un sorriso per la certezza della loro impossibilità (ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno), raccontava di speranze capaci di sconfiggere i sogni impossibili (e si farà l’amore, ognuno come gli va, anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età) raccontava di quel che ognuno, in fondo, ha nel cuore ad ogni capodanno: …poter riderci sopra per continuare a sperare perché se l’anno passerà in un istante, quello che ha contato veramente è stato esserci e essere preparati.
Qualcuno ha voluto vedere nell’amico molto lontano della canzone, addirittura Dio, anche in virtù della profonda fede sempre manifestata da Lucio. Ma forse, più che lontano nello spazio, l’amico a cui si rivolgeva Lucio era lontano nel tempo: erano tutti quelli che negli anni avrebbero amato e sentito propria la sua canzone. Siamo noi, oggi, che la ascoltiamo, ancora con lo stesso turbamento, la stessa emozione e, magari, la facciamo ascoltare ai nostri figli e la vediamo arrivare al cuore come ha fatto con noi. Una lettera che continua a viaggiare, spedita di generazione in generazione, che di amici lontani è fatta la vita e probabilmente questo, Lucio, lo aveva capito.