La notte santa – Guido Gozzano
La imparai a memoria alle elementari. Nei pomeriggi di dicembre, a scuola dalle suore, la mettevamo in scena, visto che la sapevamo tutti ed era una sfida ottenere la parte di un albergatore o di Giuseppe e non finire nel coro che semplicemente scandiva i rintocchi. La parte più ambita, in realtà, era quella di Maria, anche se non apriva mai bocca e doveva avere un’aria sofferente per tutta la recita. Tutte le parti erano recitate da bambine, perché durante la ricreazione lunga, dopo pranzo, le suore separavano i maschi dalle femmine. I maschi avevano diritto a giocare al pallone nei cortili interni più grandi oppure nel piazzale davanti alla scuola. Le femmine, che erano assai di più, avevano a disposizione il cortile più piccolo o il salone, in caso di brutto tempo. L’importante, per le suore, era che non giocassimo insieme, anche se in classe eravamo misti. Dunque se pioveva, durante l’Avvento, noi bambine recitavamo La notte santa. Quelle che interpretavano Giuseppe e Maria, a volte acconciate con tovaglie o coperte rinvenute per caso, facevano giri intorno al salone per arrivare più volte alla porta su cui Giuseppe bussava, dall’interno, fingendo. ogni volta, che fosse una locanda diversa. La porta si apriva e l’oste di turno diceva la battuta e poi richiudeva la porta in faccia a Giuseppe e Maria. Tutte le altre bambine stavano sedute al centro e facevano il coro e il pubblico, contemporaneamente. Quando nasceva il bambino, gli osti rientravano, il coro si alzava in piedi e tutte insieme declamavamo la parte finale che inizia, e finisce, con È nato, Alleluja alleluja! Mi capitò una o due volte di essere un oste. Le parti le decidevano quelle di quinta e io, all’epoca, ero in terza, ma ero alta più di loro e per questo venivo scelta. Mi piaceva moltissimo fare questa recita. Mi piaceva il presepe che c’era in portineria, davanti al quale passavamo ogni giorno. Mi piaceva imparare la poesia di Natale, fare le prove di canto per il saggio natalizio, leggere i brani che parlavano del Natale sul libro di lettura che seguiva l’ordine degli eventi dell’anno scolastico e del calendario. Mi piaceva scrivere la letterina di Natale, quella con le immagini vintage e i brillantini, che ci davano le suore quasi come una reliquia, su cui dovevamo copiare i nostri pensieri prima scritti in brutta e rigorosamente corretti. La mano tremante e il terrore che la penna stilografica – la fissazione delle suore – sbavasse o che pasticciassimo con l’inchiostro ancora fresco delle parole scritte su quel prezioso reperto. Sì, lo so, era assurdo e, se vogliamo, anche ingiusto, creare nei bambini tanta ansia per quell’oggetto, ma anche quello era uno dei riti del Natale, uno dei tanti che, nel ricordo, oggi, lo rende magico. Mi piaceva salutare tutti, l’ultimo giorno prima delle vacanze, facendoci gli auguri. Mi piaceva e mi intristiva: era un finale, era una cosa che passava e che non sarebbe mai più tornata uguale. Era che stavo crescendo e questo mi faceva piangere. Contavo, già allora, quanti anni ancora avevo “per restare piccina”, io che piccina non lo sono stata mai. Forse era proprio quel mio crescere, in altezza, smisurato, che mi aveva resa così sensibile al tempo che passava. O forse no, perché non sono mai cambiata, neppure quando finalmente ho smesso di crescere. E quando gli anni hanno avuto ragione, mi sono aggrappata a quel sentire bambino e non l’ho lasciato andare via mai, a costo di sembrare, e forse, a volte, essere, infantile. Il Natale non è più stato magico come quando ero bambina, come accade a tutti e non perché i tempi – inarrestabili, maledetti – sono cambiati, ma perché la magia era l’essere bambini, ma ad ogni nuovo Natale rileggo la poesia di Guido Gozzano e ritrovo, per un attimo, tutto quello che era il mio Natale da piccina. Un attimo intatto, sospeso, perfetto, che si discioglie, quasi sempre, in una lacrima.
Buon Natale
Vinicia