foto ARCHIVIO MICHELINO
Eravamo davanti al camino dove scoppiettava allegro un bel fuoco, la sera del 30 Dicembre del 1958, ed io ascoltavo rapito il racconto del naufragio che, durante la seconda guerra mondiale, il mio padrino di battesimo aveva vissuto, quando il dragamine sul quale era imbarcato, era affondato a causa di una violenta una tempesta davanti all’isola di Rodi. Mi stavo godendo le vacanze natalizie del primo anno di quella scuola, che mi obbligava ad alzarmi alle 5,30 del mattino per arrivare in tempo all’ITI Cappellini di La Spezia, dato che nella nostra città tale corso di studi a quel tempo non esisteva. Quindi lungi da me l’idea di fare un’alzataccia anche durante le vacanze, ma, poi, non ricordo come, il mio padrino mi propose di passare con lui una giornata di lavoro presso la stazione di Torano della Ferrovia Marmifera.
Quando parliamo della Ferrovia Marmifera di Carrara, parliamo di un’opera ciclopica iniziata nel 1876 e terminata nel 1890. Si trattava di una ferrovia industriale a scartamento normale e trazione a vapore lunga 23 chilometri che, dal porto di Marina, saliva a Carrara e, da lì, s’inerpicava nei bacini marmiferi fino a raggiungere quota 445 nel canale di Ravaccione. Era possibile agganciare, su richiesta, anche un vagone passeggeri capace di 25 posti adibito ai turisti che desideravano visitare le cave. Purtroppo la prospettiva di maggior sfruttamento e di maggiori guadagni ha fatto sì che, nel 1964, la ferrovia venisse demolita per lasciare il posto ad una strada sulla quale giornalmente transitano centinaia di camion che portano a valle il prezioso marmo, lasciando le nostre belle montagne sempre più deturpate.
Abitavamo a quel tempo su una collina antistante il monte Betogli, dal quale ogni giorno si potevano vedere vari convogli trainati dal treno a vapore, che trasportava a valle venticinque e financo trenta vagoni carichi ciascuno di blocchi di marmo del peso di venti tonnellate: che sogno poter essere su quel treno! Durante il giorno poi, in estate, ero solito giocare con i miei compagni sui binari alla Ghiacciaia, la zona a est del centro di Carrara, fino a quando la casellante, Leontina, che tutti chiamavano la Leò, ci allontanava bonariamente per chiudere il passaggio a livello perché stava arrivando il treno. Dopo qualche minuto arrivava: nero, sbuffante ed affascinante, con i suoi due macchinisti ed i frenatori sui vagoni. Uno spettacolo che ogni volta mi lasciava estatico ad ammirarlo.
Potevo quindi dire di no? Quando il mattino del 31 Dicembre udii il mio mentore scendere le scale di casa, ero già pronto da un pezzo; avevo dormito ben poco per l’eccitazione. Ricordo che alle sei antelucane prendemmo la corriera gremita di cavatori allegri e vocianti, forse perché era l’ultimo dell’anno, e arrivammo con loro fino ai ponti di Vara; qui proseguimmo a piedi sui binari lungo una galleria che ci condusse finalmente alla piccola stazione di Tarnone, dove confluivano i binari proveniente da Colonnata e da Fantiscritti Ravaccione.
Una volta arrivati ed entrati nel minuscolo edificio, azionammo un antiquato telefono a batteria locale, di quelli che, girando una manovella inviavano la chiamata alla stazione centrale di Monterosso, per dare la presenza ed autorizzare la partenza del primo convoglio.
Breve digressione: dieci anni dopo, giovane assistente ai lavori, ebbi la ventura di dismettere l’ultimo telefono a batteria locale del Posto Telefonico Pubblico di Rhemes Notre Dame in Valle D’Aosta per installare una moderna centrale telefonica
Nell’attesa dell’arrivo di detto convoglio controllammo che tutti gli scambi non fossero gelati e che funzionassero regolarmente. Ed ecco il primo treno: arrivò sbuffando e si portò sotto il “cavallo”, l’enorme fontanone presente in ogni stazione, che serviva a fare il rifornimento dell’acqua necessaria per la produzione del vapore.
A me toccò l’onore di aprire il volante del grosso rubinetto e di richiuderlo quando il serbatoio del treno cominciò a traboccare. La prima parte della mattinata trascorse ad azionare scambi ed a rifornire le motrici che risalivano la montagna, per andare ai vari poggi di carico, dove enormi gru a ponte caricavano sui vagoni i blocchi che i lizzatori avevano calato dalle cave sovrastanti.
Verso le dieci cominciammo ad avvertire un certo appetito, da lì a poco placato grazie ai macchinisti del primo treno di ritorno da Colonnata che ci portarono pane e lardo, quello che anni più tardi sarebbe diventato cibo gourmet in tutto il mondo, per uno spuntino; mai mangiato niente di più gustoso.
Seguirono altri arrivi e con essi tutte le operazioni di manovra per agganciare i vari vagoni fino a formare i convogli pronti per scendere a valle. Alle dodici e trenta l’ultimo treno era pronto e, chiusa la stazioncina, fui invitato a salire nella cabina della motrice; finalmente vedevo avverato il mio sogno. Tutto era annerito dal fumo ed il caldo era notevole; un macchinista, molto gentilmente, mi spiegò il funzionamento di vari leveraggi.
Il treno non era munito di freno continuo, come quello esistente sui moderni convogli, dove dalla motrice si possono azionare i freni dei vagoni, per cui, quando la velocità aumentava oltre un certo limite, un fischio del treno comandava ai vari frenatori, che si trovavano sui singoli vagoni, di azionare manualmente i freni per diminuire la velocità. Al nostro passaggio le gallerie si riempivano di fumo il che non mi faceva certo invidiare i poveri frenatori che si trovavano avvolti in quella nube.
Poco dopo Miseglia, all’altezza delle Canalie, il treno rallentò per permetterci di scendere prima di continuare la sua corsa verso Torano e da qui, una volta agganciati gli ultimi vagoni provenienti dalla Piastra, discendere verso Monterosso, San Martino ed alle varie segherie nella pianura fino al porto di Marina.
Finita la corsa, continuammo a piedi verso casa per concludere quell’ultimo giorno del 1958 che, a sessantacinque anni di distanza, resta ancora così vivido nella mia mente.