Alla mia età non ho ancora capito se odio il Natale o mi piace più di quanto possa confessare a me stesso. È il periodo dell’anno in cui ogni cosa diviene esagerata, nel bene e nel male, e le esagerazioni non mi sono mai piaciute. Troppe luci, troppo cibo, troppa gente, troppo traffico, troppo rumore, insomma: troppo. È semplice e banale affermare che il Natale sia una festa sentita dai bambini e dagli anziani e noi che siamo distanti dalla fanciullezza, magari più vicini alla vecchiaia, viviamo in un limbo, nel quale ci sentiamo sospesi e ancora incerti sul vero significato di questa festa, che ha origini pagane. Renderebbe più facile essere credenti e non agnostici come lo scrivente, anche se gli stessi ferventi cattolici sono ormai obnubilati dal consumismo sfrenato. Più passano gli anni e meno ricordo i natali della mia infanzia e della mia adolescenza, forse per proteggermi dal dolore di un tempo perduto. Mi ricordo, tuttavia, dell’albero che addobbavamo, rigorosamente vero e non di plastica. Albero che, poi, finiva puntualmente in giardino che negli anni divenne una piccola Bolgheri. Mi ricordo del presepe, sul quale mi divertivo a gettare chili di farina bianca per simulare la neve: sembrava più la villa di Pablo Escobar che la capanna di Gesù. Mi ricordo di cose strane in plastica colorata rigida a forma di albero, presepe, stella cometa: ce n’era una che somigliava a un mio vicino di casa. Le attaccavamo alle finestre con lo scotch le cui tracce rimanevano fino a ferragosto, che poi da lì a Natale è un attimo. Mi ricordo del dirigibile che volava sopra le nostre teste con quei grandi led e le scritte colorate, un tablet obeso. Facile augurare buon anno quando ti chiami Goodyear. Mi ricordo delle agendine profumate che mio padre, barbiere, donava ai suoi clienti. Mi ricordo quando la mia curiosità di agnostico mi condusse ad assistere alla messa di Natale in piazza San Pietro e la reprimenda dei miei genitori che mi davano per rapito, avevo dodici anni. Mi ricordo della bicicletta che anelavo da tempo, con la quale scorrazzavo per il quartiere con qualche conseguenza e visita al pronto soccorso, ma questa è un’altra storia. Mi ricordo del profumo dei mandarini e della tombola, che mi annoiava come i giochi di carte. Mi ricordo della televisione che, in bianco e nero, trasmetteva le immagini dei festeggiamenti nelle varie città e, ovviamente, la messa in Piazza San Pietro per la quale ho rischiato di essere ricercato dai servizi segreti. Mi ricordo dell’aria frizzante e pulita che si respirava dalle finestre aperte, per far tornare la temperatura interna lontana da quella di Calcutta in estate. Mi ricordo di volti e voci che sono ormai un disegno sfumato nel cassetto della memoria. Mi ricordo di improbabili lavori manuali, detti anche lavoretti (il cui nome già richiamava a qualcosa che era stato prodotto con modesti risultati) che ci costringevano a fare ogni anno a scuola, precursori del riciclo molto di moda oggi. Mi ricordo la lettera che mettevamo sotto il piatto dei nostri genitori, forse per chiedere perdono degli orrendi oggetti che portavamo a casa e per le mollette da bucato che usavamo indebitamente per costruire gli orrendi lavoretti. Mi ricordo delle lunghe passeggiate per le vie del centro di Roma, che in quei giorni mi sembrava ancora più bella. Mi ricordo dell’emozione di andare al cinema nel pomeriggio del giorno di Natale, quando erano tutti a casa a giocare a tombola. Ho già detto che mi annoiava la tombola? Mi ricordo di quella via, di quel quartiere, che erano tutto il mio mondo. Mi ricordo di quel Natale con la divisa militare e il freddo di nottate inutili, a guardia del nulla assoluto, con quell’arma in mano che odiavo come quei giorni gettati al vento. Mi ricordo di quel Natale mentre guidavo per le strade di una Roma che stava già perdendo i colori vividi impressi nell’anima. Mi ricordo di quel Natale quando volò via per sempre un pezzo di cuore e della mia infanzia. Mi ricordo del primo Natale con mio figlio appena nato e della strana sensazione di essere genitore e avere la presunzione di avere tutto il tempo del mondo. Mi ricordo di quel Natale in cui ho potuto finalmente viverla davvero. Mi ricordo di quel Natale dove mi sono perduto e ritrovato. Volenti o nolenti dobbiamo fare i conti con il Natale, spesso uno spartiacque delle nostre vite. La mia condizione di sospeso mi permette di osservare da una posizione esterna e privilegiata la festività più importante dell’anno, indeciso se restare o fuggire, come cantavano i Clash, ma in fondo sono solo sospeso, anche se credo di non essere l’unico a vivere questa condizione dell’anima.
Comuinque, buon Natale
Pierluigi