terza e ultima parte
Il viaggio tra le sorgenti del Chianti con Giorgio Pagni come guida prosegue con l’ultima tappa: la sorgente degli Sderci, in fondo a Gaiole. “Quando s’imbocca la strada per andare verso il campo sportivo – mi spiega Giorgio Pagni – all’inizio c’è il palazzo degli Sderci, a fianco del quale c’è una sorgente molto importante, che si vede anche passando di lì”. Dopo questa ultima frase rimane un po’ in sospeso, quasi dovesse radunare le idee al fine di essere certo di avermi detto tutto. “I mattoni di questa casa– dice, indicando il soffitto dell’edificio in cui ci troviamo – sono della fornace che si trovava alla sorgente di San Donato. La fornace è stata attiva fino a circa ottanta anni fa. Questa casa era di proprietà, insieme ad altre case, dei marchesi Strozzi.”. Domando a Giorgio se a Gaiole i Ricasoli non avessero possedimenti: “No, qui i Ricasoli non erano arrivati”. Faccio notare che,tuttavia, i Ricasopli erano arrivati a Vertine, infatti ci sono alcuni documenti che parlano del ramo dei Vertinelli. “Sì, in realtà a Vertine c’era una rappresentanza dei Ricasoli: un commissario fiorentino che provvedeva a dare comunicazione a Firenze. A Gaiole o di fame o di peste si muore tutti come cani. Fu proprio il commissario che mandò a Firenze questa ambasceria.” A questo proposito, chiedo a Giorgio se ha notizie di epidemie importanti che coinvolsero Gaiole. “Certo, per esempio la peste nel 1478.” Sentiamo in lontananza le campane della Chiesa di San Sigismondo. “Lo sai che nei primi del 1700 fu costruita una chiesa proprio in questa parte del borgo? Noi, intendo il paese di Gaiole, facevamo parte della Pieve di Spaltenna che era una canonica e non aveva un vero e proprio sacerdote. C’erano solo i canonici che facevano vita in comune, erano giovani avviati al sacerdozio. La chiesa era qui.” Percorro mentalmente quella che adesso si chiama via Roma, ma la chiesa della quale mi parla Giorgio non capisco dove sia, quindi chiedo candidamente: “Ma di questa chiesa cos’è rimasto? Cos’è diventata?”. È diventata un garage – mi risponde Pagni – Comunque, quella fu la nostra chiesa dai primi del 1700, poi nel 1910 fu costruita la chiesa di San Sigismondo, che l’attuale chiesa di Gaiole.
Nella zona di Gaiole, Barbischio e Dudda, la chiesa, cioè i monaci, possedevano anche molti mulini, che erano affari molto redditizi. il mulino veniva affittato al mugnaio, e i proprietari avevano un’entrata. Perciò ai monaci rendeva bene: era una sorta di mezzadria, c’era un buon riscontro economico. I mugnai non erano quasi mai proprietari del mulino. Erano ‘poera’ gente.”. Dai racconti di Giorgio emerge che, all’epoca, la portata dei corsi d’acqua doveva essere cospicua per alimentare i mulini, ma io, per esempio, non ho mai visto il Massellone con tanta acqua. “Dalla sorgente alla trattenuta del Pozzo all’Anguilla l’acqua c’è sempre – aggiunge Giorgio – tutto l’anno, come del resto al mulino di Barbischio, dove viveva Delido, in cui c’è una sorgente enorme.”
Le parole di Giorgio mi fanno riaffiorare molti ricordi di quando, bambina, andavo in visita con la mia nonna dalla Piera e Delido. Ero affascinata da quello che io chiamavo laghetto e che era prossimo alla loro abitazione. “Io mi ci sono buttato da bambino! – dice Giorgio – L’acqua era fonda, quattro o cinque metri, e fredda!” Mi faccio prendere dalla curiosità di un mestiere antico e chiedo qualche informazione sul mugnaio Delido. “Delido veniva da una famiglia di mugnai, quelli del mulino di Gaiole erano i suoi cugini. Erano proprio i mugnai storici di Gaiole. Il mugnaio metteva i sacchi di grano dentro una tramoggia, dopodiché dava la via all’acqua, attraverso una leva che andava ad azionare le macine, le pale, che giravano proprio grazie alla forza dell’acqua. Il suo compito, a quel punto, era controllare che il grano si trasformasse in farina. All’epoca non c’era un separatore per cui andava vagliato, perchè la farina una volta macinata non è ancora pronta. Quindi veniva preso uno ‘staccio’, sopra rimaneva la semola, che poi veniva data alle galline, e quello che passava sotto allo staccio, a quel punto, era la farina.”. E da qui il detto: chi va al mulino si infarina… e chi poteva essere più infarinato del mugnaio? Giorgio ride della mia battuta, e con il sorriso concludiamo il nostro incontro e mi regala alcune foto che aveva della Gaiole di tanti, tanti anni fa. “Hai ancora qualche minuto a disposizione?” Mi dice. Non posso far altro che sedermi nuovamente sul divano e mettermi comoda, questo tempo sarà prezioso e voglio goderne appieno. “Allora – dice, alzando entrambi gli indici, quasi impartisse al tempo un arresto per farmi calare nell’atmosfera di quanto sta per dirmi. – Immagina che per muoverti tu avessi a disposizione solo il carro coi bovi, che tu non avessi la corrente elettrica e nemmeno il water closet, e che per campare tu dovessi andare a lavorare nei campi… sei in quell’atmosfera?” Sì, rispondo, o almeno ci provo. E Giorgio inizia a raccontare…