foto di Giovanni Viaggi
Ricordo ancora come fosse ieri, quel giorno del 1955. Eravamo ormai in primavera inoltrata ed il signor maestro – all’epoca, quale segno di rispetto, era inimmaginabile chiamarlo diversamente – ci stava preparando in vista dell’impegnativo esame di quinta elementare. Parlava dell’America del Sud e dei suoi paesi, in particolare di Perù e Bolivia. Era inevitabile che saltasse fuori il nome Titicaca, il grande lago posto 3800 metri di altitudine, che per me ebbe subito un fascino particolare, tant’è che, non più attento alla lezione, cominciai a fantasticarci sopra, ormai certo che un giorno ci sarei andato.
Gli anni passano: si diventa adulti, il lavoro, il matrimonio, la famiglia. Tutte cose bellissime della vita, la cui realizzazione, a volte, fa sopire, ma non dimenticare, i sogni fatti da ragazzi. Finché, quarantun anni dopo, mentre ero impegnato in quel di Bolzano, mi chiama il mio capo che mi dice: “Sono emerse alcune difficoltà nel lavoro che l’azienda sta facendo in Bolivia. C’è bisogno di una mano, potresti fare un salto giù per qualche mese?” Un tuffo al cuore: eccolo là, il mio sogno di ragazzo che torna vivo nella mente; come avrei potuto dire di no? Ci sarei andato anche a nuoto!
Roma, Milano, scalo a Miami e balzo notturno verso La Paz, dove arrivo a fine marzo, alle sei del mattino, all’aeroporto internazionale di El Alto a 4050 metri di altitudine.
Non fa freddo, anche se sta finendo l’autunno, d’altronde siamo fra l’Equatore ed il Tropico del Capricorno, e l’aria è frizzantina e piacevole: sotto un bel cielo sereno mi accoglie in lontananza la mole possente ed innevata del monte Illimani, che con i suoi 6439 metri domina su tutta la Cordigliera Reale. Mi avvio verso il terminal per il ritiro dei bagagli e con un taxi scendo a La Paz a circa trecento metri di quota più in basso.
Infatti al limitare dell’altopiano si apre una enorme vallata sui cui fianchi e sul fondovalle è adagiata la città di Nostra Signora de La Paz, capitale amministrativa della Bolivia, oltre ottocentomila abitanti, che si estende scendendo progressivamente di quota da 3800 a 3200 metri.
La prima scena che mi capita di vedere è quella delle bianche natiche di una cholita, cosi viene chiamata la donna con la bombetta “Borsalino” in capo, che tranquillamente si ferma, alza l’ampia gonna e…fa pipì a lato della strada incurante della folla. Riesco a capire dall’autista del taxi che, sicuramente, si tratta di una donna dell’altopiano dove, non esistendo alcun comfort, i bisogni vengono espletati all’aperto senza meravigliare nessuno. Paese che vai…
Mentre sto per arrivare in albergo, avverto un crescente cerchio alla testa ed in particolare sotto la nuca: è il Soroche, tipico mal di montagna ben conosciuto da tutti i viaggiatori che bazzicano le altitudini peruviane o boliviane. Il rimedio? Mi si presenta subito appena entrato nella hall dell’albergo: un grosso recipiente con acqua calda nella quale galleggiano manciate di foglie di coca. Due belle tazze di “mate de coca” ed il mal di testa è solo un ricordo.
Si lavora tutta la settimana, e io non vedo l’ora che arrivi la prima domenica libera. Finalmente! Ne parlo con alcuni colleghi ed assieme decidiamo di andare a fare una escursione sul lago Titicaca. Lunga contrattazione con il tassista, che sarà impegnato con noi tutto il giorno, e partenza. Da La Paz si sale lungo l’autopista fino a El Alto, un ex piccolo villaggio dell’altopiano trasformatosi nel giro di pochi anni in una città improvvisata di settecentomila abitanti provenienti perlopiù dal sud, in cerca di condizioni di vita migliori, dopo che le miniere d’argento del “Cerro Rico” nel Potosì si erano praticamente esaurite. In effetti, il governo aveva tentato di portare questa gente nelle ricche pianure costiere, ma molti di essi perirono a causa delle condizioni ambientali non confacenti a popoli che da secoli vivevano oltre i 4000 metri.
La strada degrada lentamente e dopo alcuni chilometri eccolo lì: il Titicaca. È davvero grande: 8330 chilometri quadrati, un poco meno dell’Umbria per intenderci, ed è suddiviso fra Perù e Bolivia.
Arriviamo ad un piccolo villaggio sul cui porticciolo galleggia una imbarcazione fatta di giunchi, che qui crescono abbondanti, con prua e poppa rialzate che costituiva un tempo l’unico mezzo di navigazione e stranamente somigliante a quelle che anticamente solcavano il Nilo
Con una di queste imbarcazioni, denominata RA II e costruita dagli Aymara del lago Titicaca, il famoso antropologo Thor Heyerdahl riuscì, nel 1970, partendo dal Nord Africa, a raggiungere in 57 giorni le isole Barbados, quindi attraversando l’Atlantico e dimostrando che già nell’antichità i viaggi dal vecchio al nuovo mondo non erano impossibili.
Le acque del lago sono limpidissime ed allora come non navigarle? Altra lunga contrattazione con un barcaiolo, al termine della quale acconsente a portarci con la sua barca a motore verso l’isola di Kalahuta. Sto navigando in una splendida giornata di sole a 3812 metri di quota! Si intravvedono in lontananza numerose barche di pescatori con le loro vele bianche.
Dopo circa mezz’ora di navigazione attracchiamo ad un piccolo pontile al termine del quale c’è l’evidente traccia di un recente falò: è il “telefono pubblico” che viene acceso ogni qualvolta necessita un intervento dalla terraferma.
Su questa parte dell’isola vi sono molti campi di fave che costituiscono l’alimentazione degli abitanti; dal nulla spuntano tre bambini il più grande dei quali, armato di fionda, è il fiero cacciatore della piccola banda. Suo, infatti, è il compito di procurare gli uccellini che verranno poi cucinati dalla mamma con contorno di fave. Chiediamo loro: “E se la caccia va male?”. “Solo contorno di fave!” rispondono con un largo sorriso mostrando una dentatura con qualche finestrella. Dò loro un pacchetto di caramelle col buco che suscita meraviglia e ci regala un altro sorriso per quel piccolo dono.
È ora di tornare sulla terraferma e, qui arrivati, ci fermiamo a pranzo in una piccola osteria, invitando ovviamente anche il tassista, ormai nostro amico, a consumare una squisita trota salmonata, appena pescata, con patate arrosto e birra, guardandoci bene dal mangiare verdura crude o peggio ancora dal bere acqua onde evitare sicuri problemi di carattere gastrointestinale.
Domani si ricomincerà a lavorare a testa bassa, ma della giornata di oggi resterà l’indimenticabile coronamento di un sogno che si è trasformato in realtà.