prima parte
“Sono state raccontate molte storie sulla seconda guerra mondiale. Storie di eroismo, coraggio, atrocità e quasi incredibili malvagità, perpetrate dalla razza umana conto la razza umana e spesso contro persone indifese. Questa è semplicemente la storia di un’esperienza di guerra di un uomo. Un uomo trascinato in un conflitto di cui non sapeva nulla ed al quale non interessava nulla. Il suo semplice obiettivo, alla fine, era quello di ritornare alle sue radici per ritrovare ciò che lo rendeva felice. Fare e riparare scarpe.”
Comincia così il breve saggio: “An italian shoemaker” scritto dal professor Frederick McGlade, scrittore inglese, ma fivizzanese d’adozione, che racconta la storia di Giovanni Carli, un semisconosciuto artigiano lunigianese che negli anni della Seconda Guerra Mondiale affrontò una tragica avventura ai limiti tra la vita e la morte, la crudeltà e la pietà umana.
Giovanni Carli nacque nel 1920 da una famiglia povera che, da Sarzana, dove si era trasferita per ragioni economiche, a seguito della chiusura della fabbrica di vetro dove lavorava il padre, dovette tornare a Sassalbo, luogo di origine, per cercare nuovi sbocchi finanziari. Ancora ragazzino, Giovanni abbandonò gli studi, andando a lavorare in un fienile trasformato da due fratelli del posto in una bottega per la produzione di scarpe artigianali. Giovanni apprese velocemente il mestiere e, nel 1935, decise di aprire una bottega tutta sua in una struttura presa in affitto da un pastore del luogo. Giovanni aveva solo una forma per fare le scarpe, per cui per distinguere i modelli da uomo da quelli da donna, aggiungeva un piccolo tacco a quelle destinate alle signore. Ma dove non poteva l’attrezzatura, potevano la dedizione e la bravura dell’artigiano che, ben presto, divenne il punto di riferimento per tutto il suo paese, conquistando anche qualche estimatore in quelli vicini. Il ragazzo era poco interessato alle vicende politiche che vedevano come protagonista quell’Italia che intanto si era espansa in Africa, invadendo Eritrea ed Abissinia. Il suo lavoro lo assorbiva per tutto il giorno, tanto che la madre, come racconta lui stesso nella lunga intervista rilasciata al professor McGlade, era costretta a richiamarlo nelle ore notturne perché, martellando il cuoio per renderlo più morbido, disturbava il sonno dei paesani. Quando, nel 1939, scoppiò la guerra, Giovanni ritenne giusto arruolarsi come volontario ma venne respinto da una commissione medica. L’appuntamento, però, fu solo rimandato perché quando l’Italia entrò nel conflitto, Giovanni sentì di doverci riprovare e questa volta venne arruolato negli alpini. Data la sua esperienza come calzolaio fu impiegato nella fabbricazione di scarpe e stivali per ufficiali in una caserma di Torino. Carli trascorse tutti gli anni della guerra in quella piccola officina che finì per sentire un po’ sua, fino all’8 settembre, quando il suo destino e quello di migliaia di militari italiani cambiò in maniera drastica. I tedeschi dopo quella data rastrellarono tutti i soldati italiani che trovavano sulla loro strada, come lo stesso Carli ha raccontato nell’intervista: “…i tedeschi, nelle caserme, catturarono i soldati italiani, molti dei quali cercavano di scappare. Un colonnello, cercando di raggruppare i soldati senza successo, disse “Non scappate, onorate la bandiera, salverò voi e le vostre famiglie”. Ascoltai pazientemente e poi andai a pregare, col mio fucile. Il 91 era un fucile lungo. Mentre stavo ritornando alla mia caserma c’era una guardia tedesca che salutai, poi, improvvisamente, un camion irruppe nel cortile con i soldati tedeschi che gridavano “Raus, raus! Via, via”. Ci fecero mettere in linea e ci mandarono alla vicina stazione ferroviaria, dove fummo caricati su carri ferroviari. C’erano carri armati su entrambi i lati dei binari. Misero quaranta di noi in un piccolo vagone, che riempirono fino a scoppiare, quindi chiusero le porte e le sigillarono con catene e lucchetti. Il treno partì circa alle 5,30 del mattino: era buio. Non sapevamo dove stavamo andando, la destinazione era sconosciuta. Tutta la notte il treno viaggiò senza avere la possibilità di andare in bagno e senza mai fermarsi per le necessità biologiche delle persone. Fu terribile. Il mattino seguente ci fermammo in Polonia, in una città chiamata Toran. Aprirono le porte e la luce del sole irruppe nel vagone facendoci male agli occhi. Ci ritrovammo in un campo di concentramento internazionale pieno di soldati, francesi, inglesi, italiani, soldati da molti paesi.”
Toran, anche pronunciata Torun, era in origine un campo dell’esercito polacco chiamato Stalag 1°. Giovanni venne fatto prigioniero e mandato in un campo per i lavori forzati dove già erano presenti soldati russi, che, lui stesso ricorda, erano persone ridotte ai minimi allo stremo e vestite di stracci. Quelli che condividevano il suo destino avevano una dieta composta da un litro di zuppa di rape, 100 grammi di pane nero e dieci grammi di margarina vegetale al giorno. Così Giovanni ha ricordato il suo primo pasto consumato in quel campo: “Aspettai il mio turno per il cibo e tornai alla mia branda, che era quella in alto nella baracca dove ero stato alloggiato. Presi il pane ed era come una fetta biscottata italiana per cui era difficile da tagliare. Il pane tedesco era fatto con segale e farina, che sono difficili da tenere insieme. Provai a tagliare tre fette con il mio coltellino e ci spalmai la mia margarina. Quando finii pregai ‘ Santa Maria, mio Dio aiutatemi, non fatemi morire!”.
continua…