foto di Silvia Meacci
Si dice che perfino Lorenzo de’ Medici ne fosse ghiotto. È un piatto della tradizione toscana, invitante, gustoso e sensuale. Non piace a tutti, però, vuoi per la consistenza peculiare, vuoi per l’odore caratteristico e anche perché si tratta di interiora: è uno dei quattro stomaci della mucca. Alcuni stranieri, al solo pensiero, storcono la bocca, mentre altri, soprattutto gli asiatici, la apprezzano tantissimo. Parecchi fiorentini di vecchia generazione sono cresciuti con questo cibo povero. Perfetto per quando la temperatura scende, abbinato a un buon calice di Chianti. Risale al 1560 la prima ricetta della trippa alla fiorentina, per mano di Domenico Romoli, ne “La singola dottrina”. Prepararla è facile. Si compra già precotta e quindi, una volta sciacquata, la si taglia pazientemente a striscioline sottili. Mi ricordo che quando ero piccola osservavo mio padre portare a termine questa operazione, sperando di potergli estorcere un pezzo della “crocetta”, corposa e liscia, o qualche fettina bianca e guizzante del “rumino”, la parte a forma di nido d’ape. Poi la mangiavo, con dei granelli di sale, lì sul momento. Per me era una vera leccornia. A casa mia si faceva rosolare in un bel coccio con olio e cipolla, volendo anche con carota e sedano tritati. Se piace, è ottimo usare la salvia, perché sgrassa. Nel soffritto si versa la trippa. Si sfuma poi con il vino bianco e si aggiungono i pomodori belli rossi, tritati. Sugli odori da utilizzare ho sentito nonne e vicine di casa disquisire, se non litigare, ognuna guidata dalla piccola presunzione di prepararla più buona delle altre comari, ma tutte concordavano sulla necessità di lasciarla cuocere e sobbollire a lungo, Almeno 40 minuti. Si serve calda, calda con una bella spolverata di parmigiano. Mio padre aggiungeva anche una noce di burro, che arricchiva la consistenza vellutata del sughetto già colloso e intenso di suo. Lucido nell’aspetto e ricco di profumo.
Tante trattorie la includono nei loro menù, cucinata “alla fiorentina”. Esistono anche ristoranti specializzati in frattaglie e lì la trippa la si può gustare fritta, in inzimino, come sugo per la pasta e come ripieno dei ravioli. Se poi voleste sentirvi molto in sintonia con lo spirito fiorentino, potreste approfittare della presenza diffusa, in centro ma anche in periferia, di tanti punti vendita di panini con la trippa. “Food truck”, vale a dire furgoncini, oppure banchetti o piccoli spacci che offrono panini schietti e semplici ripieni di trippa, con aggiunta di salsa verde o piccante e a volte, di fagioli. Molto comune anche il lampredotto, l’abomaso del bovino servito nel “semelle”. Aperto a metà, il pane mostra la sua mollica soffice, pronto ad essere imbevuto del liquido di cottura e poi imbottito con gli straccetti marroncini e appetitosissimi del lampredotto. I trippai sfoggiano la loro maestria e velocità, affilano i coltelli, con il tipico sferruzzìo che ogni fiorentino conosce.
Si mangia per strada. È un fast food antico che accomuna lavoratori di ogni genere, abbatte le distanze sociali e facilita invece la conversazione tra i clienti che attendono in capannello. A Firenze certi trippai sono famosi: al Mercato centrale c’è Nerbone, al Mercato del porcellino trovate lo storico baracchino. A Sant’Ambrogio, a Porta Romana, in Piazza dei Cimatori, in Via Gioberti e anche in Piazza dei Nerli, a pochi passi dalla porta di San Frediano, in Oltrarno.
È proprio qui che la cottura della trippa trova la sua origine. Scriveva Pratolini nel suo “Le ragazze di San Frediano:”Il rione è “di là d’Arno, è il quartiere più malsano della città;(…) Gran parte dei suoi fondaci ospitano i raccoglitori di stracci, e coloro che cuociono le interiora dei bovini per farne commercio, assieme al brodo che ne ricavano. E che è gustoso, tuttavia, i sanfredianini lo disprezzano ma se ne nutrono, lo acquistano a fiaschi”.
Nelle strade di questo rione, in via Dell’Orto e in via Camaldoli, esistevano infatti dei magazzini con grandi caldaie a legna dove erano bolliti i lampredotti, le trippe, le zampe. C’è da immaginarsi l’olezzo che se ne respirava! Appese a ganci, le frattaglie erano ripulite e così erano pronte per essere vendute ai trippai che passavano con i loro barroccini. L’acqua dell’ultima bollitura era venduta a fiaschi. Quella più buona ai ristoratori e il resto alla gente comune, per pochi spiccioli. Tutti reclamavano il grasso. Si riteneva che facesse bene alla salute. Poi a casa preparavano delle minestre con riso e cavoli. E se proprio non c’era companatico, ci mettevano i “seccherelli“, pezzetti di pane avanzato. Per molte famiglie svantaggiate era forse l’unico modo per poter consumare carne bovina, alimento ritenuto nutritivo e utile, specie sotto forma di brodo, per rimettersi in forze dopo una malattia, come già veniva descritto in svariati testi del medioevo. Comunque la trippa fu utilizzata anche in banchetti regali. Nel 1600, Giambattista Redi la offrì al Cardinale Corsini come antipasto caldo e a tal proposito anche Francesco Redi, il celebre biologo alla corte di Cosimo III, scrisse: “il lampredotto di daino è vieppiù gentile, teneruccio e saporoso di qualsiasi voglia altra bestiaccia”.