Marie Yuster Marchand 17 maggio 1885 – 20 febbraio 1961
Avevo pensato a Penelope Cruz, sulle prime. Chi meglio di lei potrebbe reincarnare una donna come Marie? Nessun’altra attrice latina può vantare labbra in grado di dare un senso – variamente interpretabile – al concetto di sigaretta. E Marie aveva sempre una sigaretta che le penzolava ai lati della bocca. Era uno dei suoi marchi distintivi, anche se non fu quello a renderla tanto famosa nella New York a cavallo tra gli anni venti e quaranta del secolo scorso.
Marie Yuster Marchand nasce in uno sperduto villaggio della Romania centrale, nel 1885. Fa parte di un’antica etnia centro europea, i Rom, a quel tempo conosciuti e chiamati “gitani” o “zingari”, quando a quest’ultimo appellativo non era associata ancora alcuna accezione negativa. Eredita il suo carattere eruttivo e trascinante dalla madre, Esther Rosen, e tutto il patrimonio culturale della sua gente, crescendo tra i carri dell’accampamento, poco fuori del villaggio. Sono conoscenze e abilità che ricalcano esattamente lo stereotipo romantico – nel senso di avventuroso e passionale – dell’essere “zingari”, e che sono in grado, all’epoca, di trasmettere una certa fascinazione: l’esoterismo predittivo spicciolo della lettura delle carte e dei fondi di caffè, i balli e i canti, le serate intorno al fuoco, il modo di vestirsi, la conoscenza delle piante e delle loro proprietà, i piatti e le bevande tradizionali, la libertà di appartenere a tutti e, allo stesso tempo, a nessun luogo in particolare. I mestieri che fanno gli adulti intorno a lei, sono i più improbabili – dai commercianti di catrame ai piegatori del legno con il vapore, dai distillatori ai liutai – ma le famiglie del gruppo ne ricavano di che vivere onestamente, di villaggio in villaggio, di fiera in fiera. Ed è proprio in una di queste fiere che un ufficiale di cavalleria nota una ragazzina scalza. Non sa assolutamente niente di lei, ma le sue fattezze s’insinuano nei suoi pensieri, senza lasciarli mai più, fino al momento in cui si ritroveranno in un paese lontanissimo, al di là dell’oceano. Sì, perché quella vita, per Marie, non è abbastanza. Mentre la madre si è accontentata del suo ruolo, lei ambisce a vedute più ampie e più “elevate”. Così, a soli 15 anni, scappa e s’imbarca per l’America, con l’aiuto di un’amica che è già là che le fa avere il biglietto. Non rivedrà più nessuno della sua famiglia, nonostante che il desiderio di farsi raggiungere dalla madre, dalla sorella e dal fratello, sia sempre in cima ai suoi pensieri. Il giovane ufficiale che Marie, senza saperlo, aveva folgorato qualche tempo prima, era finito anche lui in America, e faceva il traduttore nel centro di smistamento per immigrati ad Ellis Island. È lì che la ritrova, appena scesa dalla nave, con la sua dote di sogni e speranze da offrire ad un’America affamata di forza lavoro a basso costo. La riconosce subito. La bambina scalza era diventata una giovanissima donna, ma il suo fascino non era diminuito. Si presenta e le offre un aiuto per cominciare la sua nuova vita. Non passerà molto tempo prima che l’ex ufficiale le chieda di sposarlo. Il suo nome è Damon Marchand. Trascorreranno tutta la vita insieme, e lui starà alla vita di Marie, come la Luna sta alla vita sulla Terra.
All’inizio Marie si guadagna da vivere svolgendo i tipici lavori riservati alle immigrate come lei. Ma non sono i turni, né la durezza del lavoro che minano il suo entusiasmo: è New York a deluderla. Perché la grande città non può offrirle granché, almeno fino a quando non si riesca ad elevarsi al di sopra delle sue strade sporche e fumose. Per farlo deve contornarsi di amici di una certa statura intellettuale: questo è il suo secondo desiderio più grande.
Così, invece di seguire corsi serali d’inglese, come fanno tutti, per accelerare i tempi d’integrazione, Marie decide di imparare la lingua in contesti più stimolanti, come i teatri, le conferenze e le assemblee. Ad una di queste conferenze conosce Emma Goldman, un’attivista militante, dipinta a tinte foschissime dai giornali del tempo. Le persone che intervengono parlano di cose mai sentite prima, come contraccezione, diritti delle donne, libertà sessuale, diritti dei lavoratori, lotta contro i centri di potere, e così via. Capisce che è questo, il mondo variopinto e stimolante di cui vuole far parte, non quello grigio e senza speranza in cui, come una mosca nella tela di un ragno, è impigliata adesso. La Goldman dirige una specie di scuola alternativa, sovvenzionata da un gruppo anarchico newyorchese. Marie riesce a farsi assumere nell’istituto, e inizia il suo percorso di introduzione negli ambienti intellettuali della città.
Quando Marie e Marchand si sposano, la coppia si trasferisce in un piccolo appartamento di tre stanze nel Village. Qui prendono vita, ben presto, salotti di conversazione per intellettuali e artisti, per i quali Marie cucina prelibatissimi piatti gitani e prepara del delizioso caffè turco. La cerchia dei partecipanti a queste serate a base di arte, cibo e intrattenimento pagano, si allarga velocemente. Convinti del potenziale di Marie, alcuni amici la spingono ad aprire un suo locale e raccolgono una colletta per aiutarla. La prima Romany Marie’s Tavern – è il poeta David Ross a coniarle il soprannome di Romany Marie, in onore delle sue origini rumene – viene inaugurata nel 1914, in un edificio vicino a Sheridan Square: si trova al terzo e penultimo piano, al quale si accede dopo una rampa di scale esterna e due interne. I suoi locali – arriverà a gestirne sei – hanno tutti questo tipo di ambientazione: soffitte, seminterrati, sale abbandonate. Alcuni chiudono con la stessa velocità con cui vengono aperti. Ma non importa, chiuso un locale la “carovana” si trasferisce in un altro. Cambiano le strade e gli edifici fatiscenti che li ospitano, ma la struttura rimane sempre la stessa: interni da taverna medioevale con richiami alla cultura rumena e gitana, atmosfera rovente con musica e balli fuori controllo, cucina rumena e, naturalmente, fiumi di caffè turco. Ma lo spazio che non mancava mai è quello dedicato all’incontro degli intellettuali. Una sorta di salotto dove ogni sera confluisce l’élite bohémien newyorchese e non solo, sempre in cerca di un posto dove scambiarsi le idee e tirare lungo fino al mattino, magari dopo una corsa nudi per le strade del Village. Immaginate un tavolo intorno al quale personaggi quali Ernest Hemingway, Henri Matisse, il poeta Eduard Estlin Cummings e l’architetto Richard Buchminster Fuller intavolano discussioni sull’arte e, di conseguenza, sulla vita stessa, sorseggiando del caffè turco, mentre la musica gitana risuona, qualcuno balla e qualcun altro amoreggia nella fumosa penombra che avvolge tutto.
Nei locali di Marie nascono amicizie, collaborazioni artistiche, persino matrimoni. Marie ha sempre un pasto caldo e un letto per la notte, da offrire ad un’artista in difficoltà. Per alcuni di essi, Marie, diventa una musa, per altri una protettrice. Le feste mascherate a tema che periodicamente vengono organizzate nei suoi locali, si ammantano di leggenda. Lei stessa diventa un vero e proprio personaggio che, come si direbbe adesso, fa tendenza. I giornali riportano gli eventi che organizza nelle sue taverne o quelli in cui è invitata come ospite, con dovizia di particolari, soffermandosi malignamente sui suoi look stravaganti, esattamente come vengono analizzati gli outfit delle star di Hollywood, quando sfilano sul red carpet. Marie, inoltre, fa parlare di sè anche in veste di attivista. Spesso prende parte a scioperi e manifestazioni di protesta che contribuiscono ad etichettarla come un’anarchica, anche se in seguito si dissocerà pubblicamente da questa appartenenza politica.
Tra gli anni venti e quaranta del secolo scorso, si registra un flusso costante di artisti ed intellettuali che fa la spola tra Parigi, Berlino e il Greenwich Village di New York, in cerca di nuove conoscenze, esperienze e possibilità. Le taverne di Romany Marie sono uno dei punti nevralgici di questo circuito. La lista dei personaggi che hanno frequentato con regolarità i suoi locali, o che si possono definire suoi seguaci, è veramente impressionante. Nello scintillio della vita di questo straordinario personaggio femminile del passato, il posto occupato dal marito è importantissimo, ma non centrale, almeno fino al periodo che precede la sua morte. L’amore tra i due è puro, e non è mai stato in discussione, anche se la loro storia è costellata di relazioni extraconiugali spesso sfiancanti.
Damon Marchand è un mezzo genio interessato più alla cura delle persone, piuttosto che all’arte o alla cultura. Testa su stesso i rimedi farmacologici da lui inventati, rischiando spesso di lasciarci la pelle. Ma alcuni di questi farmaci fatti in casa funzionano davvero, regalando all’ex ufficiale una certa notorietà nel quartiere. Damon ha idee che sembrano strampalate, ma che denotano una certa intuitività, come un metodo per produrre caffè espresso o la formula per una crema depilatoria. Affascinato dalla medicina alternativa e dall’osteopatia, s’inventa una cura per Marie quando quest’ultima si ammala gravemente. La cura, che non ha alcun fondamento scientifico, incredibilmente, funziona. Convinto di essere infallibile, si affida totalmente alle sue capacità diagnostiche e terapeutiche anche per curare se stesso, ma morirà in modo lento e straziante. Marie gli sta accanto, rinunciando anche ad una nuova apertura, ma dopo la morte del marito non ha più la forza di riprendere la vita che faceva prima. Marie, quindi, si ritira e vive gli ultimi vent’anni senza più far parlare di sé. In cambio di qualche pasto gratis e di qualche stecca di sigarette, immancabili, ogni tanto porta i vecchi amici in un ristorante, affinché il locale si possa fare pubblicità. Ma sono apparizioni sporadiche, anche perché i bei tempi sono finiti, e i personaggi che gravitavano intorno alle sue taverne non hanno alcuna notorietà negli anni cinquanta.
Alla sua morte, nel 1961, Marie è un personaggio dimenticato. La città sta cambiando, e con lei, il mondo intero: una nuova, lunghissima stagione di tensioni internazionali incombe, e l’esaltante periodo bohémien che New York ha vissuto, sembra quasi un corpo estraneo nel tessuto della memoria cittadina. Solo il Village Voice celebra la grandezza del personaggio con il titolo: “La regina è morta – Non ce n’è un’altra”. Prima o poi, qualcuno farà un film sulla sua storia. Spero in Martin Scorsese, che seduto intorno ad uno di quei tavoli, ci sarebbe stato benissimo.
Fonti: Scena9, Romania (tradotto, stampato e distribuito in Italia da Internazionale) Wikipedia