Sono un figlio degli anni ’70, forse la decade più prolifica dal punto di vista musicale, tutto ciò che non si è sviluppato in quegli anni è stato un seme per quelli a venire. Anche in Italia non ce la cavavamo male, nonostante fossimo ancora legati ad un tipo di sonorità ormai passate. Mentre fuori dai confini nazionali si sperimentava e si ricercavano nuovi sentieri, all’interno si sprofondava sempre nelle stesse tracce con artisti e cantanti legati a doppio filo alla cultura popolare che un po’ mi faceva storcere il naso. Verso i tredici, quattordici anni diffidavo di ciò che proponeva il mercato, andando a cercare cose già passate. Mio padre non usciva dal recinto della musica classica, concedendosi al massimo i Beatles, mia madre era un po’ più aperta, ma ricordo che il mio tentativo di farle ascoltare l’assolo di batteria dei Deep Purple nel live Made in Japan, fallì dopo nemmeno dieci secondi. Arrivava, però, ogni anno, il richiamo del festival di Sanremo e tutti correvamo a leggere l’elenco degli artisti su un giornale che non so nemmeno se esiste più: “Tv, sorrisi e canzoni”
Scorrendo l’elenco mi tremavano i polsi a leggere sempre i soliti nomi, Albano e Romina, Anna Oxa, Drupi, Peppino di Capri ma uno su tutti, che è il motivo di questo articolo, mi sconvolgeva più di tutti: Toto Cutugno.
Era lunigianese, almeno di adozione, infatti era nato a Tendola, frazione di Fosdinovo. Non vogliatemi male, ma io da ragazzo non lo amavo, ce l’avevo con lui dal 1983, quando vinse la kermesse musicale con quella canzone che esaltava lo stereotipo dell’italiano all’estero: pizza, spaghetti e mandolino. Era un’equazione che non sopportavo e che ancora oggi rifuggo con tutto me stesso. Ogni volta che sento quella canzone, benchè mi venga spontaneo canticchiarla, sento il sangue che mi ribolle nelle vene. C’è però una delle sue canzoni che più di tutte stuzzica i miei ricordi, specialmente da quando sono diventato un lunigianese di adozione: è una canzone del 1995 e fuoriesce di nuovo dal tanto amato/odiato Sanremo: “Voglio andare a vivere in campagna”. Con mio sommo piacere, alla fine della competizione, finì diciassettesima.
Ora facciamo un salto temporale di qualche anno, non ricordo esattamente quale ma eravamo agli sgoccioli degli anni novanta, in una delle prime edizioni di un festival artistico musicale che si tenne a Fivizzano per qualche anno: il “Music world”. Sapendo che parlavo inglese, mi chiesero di poter accompagnare in giro per la Lunigiana un gruppo di artisti armeni, di cui potrei parlare per ore. Il capo comitiva si chiamava Costantian (tutti i nomi armeni finiscono per IAN), la loro interprete dalle foltissime sopracciglia parlava inglese come io parlo l’arabo. Dire che erano poveri era fargli un complimento, non avevano mai visto il mare e quando, un giorno, li portammo alla spiaggia libera di Marinella per poco non gli venne un infarto dalla felicità. Si buttarono in mare vestiti, tanto per dirne una e dovemmo stare attenti che non ne affogasse qualcuno. Avevano un pullman, residuato bellico del ’45, che camminava con la forza della disperazione. Il loro autista Edo, che si autodefiniva “Superdriver”, volle mostrarmi un tatuaggio che aveva e levandosi la maglietta, mi mostrò una complessa scena di battaglia tra crociati e saraceni che gli copriva tutta la schiena. Rimanemmo tutti sbalorditi. In uno dei nostri viaggi chiesi a Constantian di farmi vedere la cartina che avevano seguito per arrivare in Italia. Tenendo presente che allora i navigatori erano ancora fantascienza, mi aprì davanti agli occhi una cartina geopolitica scolastica che mostrava ancora l’Impero Ottomano con una x ad indicare la partenza ed una linea che la univa ad un’altra x, dove più o meno potevamo essere noi. Non feci altre domande. Un giorno dovetti portarli a Fosdinovo per un’esibizione. Immancabilmente, durante il viaggio, mi chiesero di cantare insieme a loro “L’italiano” e per non offenderli dovetti farlo, se pur controvoglia. Il pericolo, però, era dietro l’angolo anzi, nel mezzo di un tornante per essere precisi. A Tendola infatti, Edo, anche per colpa anche di alcune autovetture parcheggiata male, rimase inesorabilmente incastrato in una curva: non andavamo più nè avanti, nè indietro! Essendo stato sottoposto poco prima alla tortura de “L’italiano”, subito mi venne alla mente la canzone “Voglio andare a vivere in campagna” e mi feci molte domande sull’esistenza o meno del fato avverso, anche se la più urgente fu quella di come sbloccare la situazione nel minor tempo possibile. Chiesi quindi a Edo di aprire la porta del pullman, ma si era bloccata anche quella: Toto Cutugno finì al centro delle mie imprecazioni, fino a quando il mio autista non mi chiese di allungargli una bottiglia di grappa che aveva preso non so dove. Gliela allungai in silenzio, lui svitò un tappo che probabilmente dava accesso al sistema idraulico di apertura e chiusura delle porte, ci versò dentro la grappa, riavvitò e dopo qualche tentativo la porta magicamente tornò a funzionare. Gli chiesi come fosse stato possibile e l’unica riposta che fu in grado di dirmi fu: “Edo! Superdriver”. Scendemmo tutti per analizzare la situazione che sembrava non avere una soluzione, lentamente anche la popolazione locale cominciò ad arrivare incuriosita dalla scena, ma anche da quel gruppo raccogliticcio di artisti armeni che sembrava uscito da un film di Kusturica. Alla fine prendemmo la decisione più difficile che potessimo pensare, spostare di peso (e a mano) le macchine che ostacolavano il nostro percorso permettendo a Edo di uscire dall’incastro. Spinta dopo spinta, imprecazione dopo imprecazione, grazie anche all’aiuto dei passanti e dei residenti liberammo la strada e riprendemmo il nostro cammino. Le avventure con gli armeni rimangono ancora oggi impresse nei miei ricordi. Quando se ne andarono chiedemmo loro cosa avessero con sé per mangiare durante il viaggio, ci fecero vedere delle pannocchie di mais piuttosto dure da sgranocchiare, neanche a dirlo si scatenò una corsa tra fivizzanesi a regalare chi dei biscotti, chi della pasta, chi qualsiasi altro tipo di genere alimentare che sarebbe bastato loro per andare sulla Luna e tornare indietro. Per ultimo, presi la mia bicicletta e la regalai al più piccolo della comitiva che altro non desiderava che averne una. Tornarono al loro paese, lasciandoci tra le lacrime e se devo dirla tutta non sapemmo mai se alla fine ce la fecero a tornare indietro o no, perché di loro non ho più avuto notizie.
Per questo motivo quando sentirete Toto Cutugno cantare “Voglio andare a vivere in campagna” sappiate che si riferiva a Tendola dove Edo superdriver, in un tornante malefico, diede prova dei suoi super poteri, dove tutto il paese diede prova di forza e solidarietà e dove Constantian, nei tempi morti, cercava di insegnare a me e al mio amico Marco, che quel giorno decise di accompagnarmi, la “Danza delle spade” di Haran Khachaturian.