• Sab. Nov 23rd, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

L’India è forse l’ultimo posto al mondo dove ha ancora un senso, per un occidentale, andare in giro con vestiti di lino bianchi. L’iconico outfit coloniale non suscita alcun disprezzo, alcuna avversione, non espone a trattamenti discriminatori, né tantomeno viene considerato oltraggioso. Anzi, in alcuni casi è ancora indicato ed opportuno. Ed è proprio in questa simbolica tenuta, con tanto di cappello a tese larghe e penna nel taschino, per prendere devotamente appunti, che uno scrittore tedesco si presenta negli uffici del Dipartimento Forestale di Port Blair, capoluogo delle Andamane, un arcipelago di isole semiselvagge appartenenti all’India, situate al largo delle coste birmane, nel mare che porta il loro nome, all’interno del Golfo del Bengala. Qualche anno prima aveva visto una fotografia. La storia collegata a questa fotografica gli aveva ispirato l’idea per un romanzo, e voleva andare a vedere di persona i luoghi, ma soprattutto qualcosa che fosse collegato al protagonista di quella foto: vale a dire, un enorme elefante che nuota completamente immerso nel mare. L’elefante si chiamava Rajan, ed era l’ultimo degli elefanti nuotatori delle Andamane.

Gli elefanti in quel luogo non sono parte della fauna autoctona. Arrivarono lì a bordo di un piroscafo partito da Calcutta, negli anni ’50, poco dopo l’indipendenza dell’India. Grazie alle fitte foreste di alberi tropicali – tra i più del mondo –  questo gruppo di isolotti fu giudicato una risorsa economica preziosa, e il neonato governo indiano promise un lavoro e una casa a chiunque si fosse trasferito lì. Così, insieme a centinaia di persone in cerca di una vita migliore, sul piroscafo partirono anche gli elefanti, insieme ad un gruppo di mahut, gli addestratori. I pachidermi si rivelarono delle macchine da lavoro molto efficienti: grazie alla loro forza si prosciugavano le paludi, si spianavano i sentieri, si abbattevano alberi e si trasportava il legname dalle impervie zone interne fino alla costa, dove veniva lavorato e poi spedito sulla terraferma. Finito il lavoro su un’isola, ci si doveva spostare su quella successiva. Ma come portare lì gli elefanti? Semplice, nuotando. Fu così che i mahut insegnarono ad alcuni di questi animali sgraziati a nuotare in mare aperto con la naturalezza di Esther Williams, coprendo molte miglia marittime.

Ma torniamo nell’ufficio del Forest Officer, a Port Blair.

Lo scrittore sa che non potrà mai incontrare l’ultimo elefante nuotatore, perché Rajan è morto di vecchiaia molti anni prima di questo suo viaggio. Ma sa anche che alcuni elefanti appartenenti al gruppo originale, sono ancora vivi, e si trovano da qualche parte su una delle isole dell’arcipelago. Senza il permesso dell’alto funzionario, però, attraversare le foreste è severamente proibito. Quest’ultimo rivela che gli elefanti erano di proprietà di una falegnameria, che però perse la licenza per il loro trasporto anni addietro. Alcuni di loro furono venduti sulla terraferma come elefanti da tempio, altri furono liberati e vivono adesso allo stato brado su una delle isole dell’arcipelago, dove entrare in contatto con loro, però, è impossibile. Nessuno di essi, in ogni caso, è stato un elefante nuotatore. Lo scrittore riesce a convincere l’ufficiale dell’onestà e della bontà del suo viaggio, e ottiene un passaggio su un convoglio che lo porterà a Maya Bandar, a nord, il luogo dove si ritiene che il piroscafo sia attraccato, e dove dovrebbe essere ancora in vita l’ultimo esemplare di quel gruppo, una femmina. Anche se nemmeno lei è stata una nuotatrice, lo scrittore decide di partire. Lungo la strada, ai margini della foresta, si vedono gruppi di nativi che rifiutano il contatto con il mondo, e vivono ancora secondo le antiche usanze, cacciando con archi e frecce.

Arrivati a destinazione, l’incontro con l’anziana elefantessa dura pochi minuti, ma è comunque emozionante. Neanche il tempo di scendere dal mezzo, ed eccola emergere fuori dalla foresta, accompagnata da un semplice fruscio di rami e foglie, insieme alla figlia e ad un cucciolo, come se si aspettasse quella visita. Scuote la testa e le enormi orecchie un paio di volte, spostando contestualmente il peso del suo gigantesco corpo sulle zampe, da destra a sinistra, e viceversa. Una guardia armata impedisce allo scrittore di avvicinarsi e di fare fotografie, requisendogli la macchina. Ma non fa niente, l’importante per lui è vederla. Poi, in silenzio, il gruppo sparisce di nuovo fra gli alberi. Lo scrittore torna a Port Blair, ma il suo viaggio non è finito.

L’ultimo tentativo per trovare qualche traccia di Rajan, è raggiungere le bianche spiagge di Radnaghar, su Havelock Island. La struttura alberghiera di lusso che si trova lì, aveva acquistato Rajan alla fine del periodo del disboscamento. La sue straordinarie capacità natatorie ne avevano fatto un’impareggiabile attrazione per i turisti, che potevano richiederlo per le immersioni, o come semplice compagnia per una nuotata indimenticabile accanto ad un colosso da sei tonnellate di peso. Uno di quei turisti era la fotografa Jody MacDonald. È sua la foto che ha ispirato lo scrittore. Rajan è ripreso mentre nuota, sollevando una piccola nuvola di sabbia dal fondo: è completamente immerso nelle limpide acque di Radnaghar e ha la bocca aperta, in quello che sembra, a tutti gli effetti, un vero e proprio sorriso, come se si stesse divertendo un mondo. Quella stessa foto campeggia oggi nella hall del resort, ed è ancora più poetica vista dal vivo, con il forte contrasto dei due colori dominanti, il grigio dell’animale e l’azzurro del mare, e la forza simbolica di ciò che vi è immortalato. L’incontro con la vecchia elefantessa e la visita al luogo dello scatto, sembrano già un qualcosa di straordinario allo scrittore, ma il regalo più grande deve ancora venire e glielo fa il direttore del resort. Nella struttura lavora ancora l’ultimo mahut di Rajan e il direttore gli concede di parlare qualche minuto con lui.

Il mahut rivela come, in  realtà, gli elefanti siano dei nuotatori nati. Con la proboscide che gli funge da boccaglio, la spinta dei loro muscoli, la capacità dei loro polmoni, e la forza del loro cuore,  possono nuotare per ore. Non amano l’acqua salata, è vero, ma se li abitui piano piano al contatto con essa, spruzzandogliela addosso un po’ alla volta, non fanno resistenza a tuffarsi. Racconta anche di mahut  che spingevano gli animali in mare a furia di bastonate, o di chi usava metodi ancor meno ortodossi, come attaccare due polli senza artigli all’altezza degli occhi dell’animale: i polli, dimenandosi all’impazzata, distraevano l’elefante, che così poteva essere portato dovunque, anche in mare. Una volta in acqua, però, la conduzione era uguale per tutti: accucciati sul collo i mahut davano il comando di andare, poi un calcetto dietro l’orecchio destro per far girare l’animale a sinistra, e uno dietro quello sinistro per farlo virare a destra. Semplicissimo e bellissimo.

Riesco con difficoltà a trovare qualcosa di più poetico e maestoso dell’idea di cavalcare un elefante in mare aperto, cullati dal suono magico dello sciabordio delle onde, nel baluginare dell’alba o sotto un cielo in fiamme al tramonto.

Rajan non nuota più, ma forse “…il suo spirito sta ancora attraversando il mare” (Rahul, guida).

Fonti: Internazionale (Italia, traduzione), Die Zeit (articolo originale), Wikipedia