Alla periferia di São Paulo, in un cortile circondato da una serie di casette basse a schiera, ognuna identica a quella che la segue e a quella che la precede, c’è un grande albero di mango. Davanti ad esso è posizionato un oggetto apparentemente senza alcun senso. Ad un certo punto nel cortile si raduna uno gruppetto di persone. Sembrano aspettare qualcosa. E quel qualcosa è la funzione settimanale della sacerdotessa evangelica Jacque Chanel. I suoi accoliti non sono numerosi – in senso stretto, la sua è una congregazione ancora molto di nicchia, almeno per adesso – e questo perché la chiesa che ha fondato, il Ministério Séforas, è la prima, e presumibilmente anche l’unica, chiesa evangelica per persone transgender del Brasile. Il manufatto davanti al mango è il suo altare, e da lì Jacque infervora i suoi fedeli con sermoni appassionati, su come la parola e la vita di Gesù Cristo siano in realtà la dimostrazione che ognuno merita l’amore, il rispetto e la misericordia del prossimo, senza nessuna distinzione. Tutto il resto è politica, non religione, sostiene.
Alcuni lettori, spero pochi, grideranno alla blasfemia e saranno tentati di abbandonare la lettura immediatamente. Ad altri, spero sempre pochi, comparirà un sorriso ironico sul volto, o sfuggirà qualche battura triviale, e continueranno la lettura per soddisfare un qualche tipo di curiosità affatto nobile. Invito il primo tipo di lettore a proseguire, e il secondo ad abbandonare ogni deriva denigratoria, perché la storia di Jacque è la storia di una cristiana esemplare, e merita ampiamente di essere raccontata, affinché tutti possano trarne beneficio ed insegnamento.
Jacque, oggi, ha 58 anni, e porta sulle spalle il peso di una vita d’inferno. Ma la sua grande forza è sempre stata la fede, una formidabile vocazione divina che la supporta da sempre. Inoltre possiede carisma e una certa capacità oratoria: tre qualità che le sono state sufficienti per fondare la sua personalissima congregazione evangelica, anche perché questo, credo, non prevede alcuna autorità suprema, e quindi non esistono prassi da seguire, né autorizzazioni da ottenere. Ma fra tutti i posti dove fondare una chiesa per transgender, il Brasile sembra essere quello meno adatto. Nel paese si stanno moltiplicando, infatti, le chiese pentecostali, e gli esperti stimano che tra dieci anni gli evangelici supereranno i cattolici. Il problema è che quasi tutte queste congregazioni sono ultraconservatrici, e il rifiuto delle istanze moderniste – quali l’aborto, il suicidio assistito, i rapporti omosessuali, l’identità di genere – si sta radicalizzando, rendendo la vita di persone come Jacque particolarmente difficile. Emarginazione, solitudine, violenza ed umiliazioni sono state le sue compagne di viaggio ma, alla fine, l’hanno condotta fino a quell’altare improvvisato – con la sua parrucca, il suo lungo vestito nero da cerimonia, e gli immancabili tacchi a spillo – a predicare l’amore e a diffondere, nel suo piccolo, la parola di Cristo.
Jacque ha capito subito di essere nata in un corpo sbagliato. Le sue strane attitudini sono diventate prestissimo un problema e fonte di imbarazzo per la famiglia, che si professa molto credente. Così la madre non ha trovato di meglio che cacciare di casa il ragazzo tredicenne, affidandolo al prete del quartiere, nella speranza che Gesù lo guarisse. Il prete non potè offrire, a Jacque, altro che un tetro scantinato senza finestre, e Jacque si ritrovò a vivere in quel pertugio buio e maleodorante per sei anni. Malgrado tutto, ricorda quel periodo con piacere: per tutto il tempo in cui ha vissuto lì, il prete non le ha fatto alcuna domanda, né ha mai cercato di cambiare la sua indole, anzi, le ha permesso di far parte della comunità, non facendola più sentire un’emarginata. La drammatica esperienza dell’abbandono da parte della famiglia, racconta serenamente oggi, ha rafforzato la sua fede. Fede che non ha mai vacillato, neanche quando il pastore che la ospitava venne ucciso, davanti a suoi occhi, da un commando di sei uomini che un giorno irruppero nella chiesa: un assassinio dovuto, molto probabilmente, ai nemici che il pastore si era fatto fra la delinquenza del quartiere, per la sue iniziative volte all’allontanamento dei ragazzi dalla droga e dalla delinquenza.
Fu uno shock enorme, quasi insopportabile. Non c’era più niente per lei a Belem, il luogo dove era nata e dove si era consumata la tragedia. Negli anni ’80 Jacque decise di trasferirsi a São Paulo, come tanti altri brasiliani emarginati e poveri, in cerca di una vita migliore.
Ma se non conosci nessuno, anche una città abitata da milioni di persone può diventare il posto dove ti puoi sentire completamente sola al mondo. Ed è esattamente così che si sentì, Jacque. Ancora una volta, però, fu la fede a salvarla. Jacque prese a frequentare la chiesa del quartiere dove viveva, andava regolarmente a messa, entrò nel coro e partecipò anche agli incontri dei gruppi giovanili. Quando decise di cambiare sesso, però, le cose cominciarono a peggiorare. Le umiliazioni, soprattutto da parte dei pastori, che la vedevano come l’incarnazione del diavolo in persona, una sorta di aberrazione della natura, si susseguirono e la fecero ripiombare nel baratro della solitudine, fino a costringerla a non frequentare più la chiesa. Questo allontanamento forzato da ciò che per lei significava vita e speranza, fu il periodo più difficile per Jacque. Poi, nel 2013, conobbe un altro pastore, a suo modo ancor più straordinario del precedente. Le confessò di essere gay e di essere a capo di una congregazione evangelica per persone omosessuali. Il pastore la invitò ad una funzione, e quando Jacque mise piede per la prima volta nella chiesa, la sua vita cambiò nuovamente. Jacque capì che non avrebbe voluto stare in nessun altro posto al mondo. Le luci accoglienti, le bandiere colorate e la varia umanità che quel luogo quasi magico accoglie, la convinsero di aver trovato, finalmente, una casa. La sua casa. Una casa dalla quale nessuno l’avrebbe più allontanata.
Ma anche questa straordinaria comunità di persone non era immune da comportamenti ed atteggiamenti dettati dal pregiudizio nei confronti di Jacque e dei transgender in genere. Quando anche questa nuova realtà cominciò ad andarle troppo stretta, decise di fondare una chiesa tutta sua: il Ministério Séforas, appunto, dal nome della moglie di Mosè, un riferimento biblico non casuale.
I sermoni di Jacque vertono sulla natura totalmente inclusiva della cristianità, sull’amore che Dio nutre per il cuore buono di tutte le persone, senza alcuna discriminazione. Tutti le censure, i divieti e i precetti, sono costruzioni teologiche il cui scopo non è quello di liberare le persone, bensì renderle schiave di vecchie e nuove paure. E quando dice che, in fondo, anche Gesù era un emarginato, è difficile darle torto. Così come difficilmente impugnabile è la sua accusa contro il cattolicesimo e l’islamismo, che sono cadute preda dei fondamentalisti, e che tradiscono la parola di Dio/Allah predicando odio, al posto di amore e fratellanza.
Ma lo straordinario spessore morale di questo personaggio non si ferma alla sua vitalità, alla purezza della sua fede e alla caparbietà con cui porta avanti il suo progetto di proselitismo evangelico all’interno di una comunità così eterogenea e complessa come quella delle persone transgender. Jacque fa molto di più.
Casa sua è una stanza all’interno di un edifico abbandonato e occupato, dopo l’interruzione dei lavori di costruzione, da famiglie e persone povere. Attigua alla stanza dove dorme, c’è quel che rimane di una cucina industriale, che però è funzionante. Qui, una volta a settimana, Jacque prepara centinaia di pasti, quasi sempre passati di verdure, che poi distribuisce ai senza tetto, girando per le strade desolate del quartiere con un piccolo furgone, oppure nei pressi della cattedrale. Molti dei senza tetto che riescono a prendere una scodella della sua minestra, sono transgender che si prostituiscono. Ma Jacque non fa tutto questo per attirare nuovi fedeli: il suo scopo è, semplicemente, sfamare gli affamati. In Brasile, l’aspettativa di vita delle persone transgender è 35 anni, perché la maggior parte di loro vive per strada.
Uno dei posti dove si può trovare rifugio è Casa Florescer, una struttura nata nel 2016 per accogliere i senza tetto trans del paese e non solo, con dottori, infermieri, psicologi e assistenti sociali, sorvegliata notte e giorno come un presidio militare. Qui Jacque tiene una funzione una volta al mese. Non tutte le ragazze la stanno ad ascoltare, ma quelle che rimangono partecipano con fervore. Molte di loro non saranno più lì il mese prossimo, quando Jacque tornerà, perché si fermano nella struttura solo per qualche giorno, il tempo di riprendersi dall’ennesimo pestaggio, per poi tornare in strada a prostituirsi per una dose di crack oppure per pochi, pochissimi soldi. Jacque sa che non le rivedrà mai più: la sua battaglia non è per le ragazze che se ne vanno, ma per quelle che restano. Se solo una di loro sceglierà di non tornare in strada e di affidarsi alla forza della fede per trovare il proprio dignitoso posto nel mondo, sarà una piccola, grande vittoria dell’amore sull’odio, della speranza sulla disperazione, del vero spirito cristiano di una transgender sulle vuote parole di un intero sistema.
Fonte: Internazionale (Italia), Republik (Svizzera)