• Dom. Set 8th, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

seconda parte

“Il primo mercato attestato a Barbischio è datato 1052 ed ebbe fine nel 1077. Portare la merce fin quassù con i carri trainati dai buoi su strade selciate che correvano in mezzo al bosco era sicuramente scomodo e disagevole” Claudio Bonci prosegue nella ricostruzione storica. Tendo l’orecchio nella vana speranza che quelle immagini raccontate evochino in me i rumori di un mercato, il cozzare del pentolame, il crocchiare delle galline, l’odore penetrante delle deiezioni degli animali, le voci dai toni alti di chi vende per richiamare chi compra, il frusciare delle vesti lunghe delle donne, lo scalpiccio degli scarponi, provo a immaginare un mio antenato o una mia antenata che si aggirano in mezzo ai banchi e il passato assume quasi una visione idilliaca.

“Nel 1077 venne, quindi, scelta una zona a valle, migliore per fare il mercato: nacque così il mercato di Gaiole che si svolgeva ogni mercoledì. Inizialmente, in quel luogo, non vi era che qualche casa sparuta, solo in seguito fu fatta la piazza e divenne punto concentrico di tutti i paesi delle colline circostanti, dalle quali i contadini scendevano a valle e mercanteggiavano. Da che vi erano poche case, man mano, le abitazioni aumentarono e Gaiole divenne importante dal punto di vista economico, perché tutti i flussi commerciali passavano da lì, ma di questo parleremo in una prossima passeggiata”. 

Il punto in cui ci troviamo, a Barbischio, era il fulcro del paese: questa era una bottega, e io lo so bene, dato che per un paio di generazioni è stata della mia famiglia. Purtroppo non conosco cosa fosse prima dei miei bisnonni, per cui domando a Claudio se è sempre stata una bottega.

“La prima struttura ai piedi del castello, molto spesso, era la locanda, un punto di accoglienza, un luogo dove potevi trovare una minestra calda, una zuppa. Di sotto mangiavi e di sopra, dove adesso c’è la cucina del ristorante, dormivi. Altra curiosità interessante: tra il 1800 e il 1900, all’interno della bottega, si sono svolti dei processi, fatti a persone del posto, magari per un furto di un melone, un pollo, della frutta rubata dagli alberi. Un abitante di qui veniva incaricato come giudice. L’imputato sedeva all’interno, davanti a una giuria e veniva  sottoposto a processo: se colpevole, passava qualche giorno alle carceri di Radda, che oggi sono visitabili, cosa che  faremo insieme in un’altra passeggiata. Quindi questa bottega è stata anche una stanza processuale”.

Per anni, quella che adesso è la cucina de Il papavero, è stata la casa dei miei bisnonni e della mia nonna. Poi cambiarono casa, sempre in paese, nella parte che viene chiamata  “castello di sotto”.

“Probabile che anche nel passato, nel “ castello di sotto”, la parte superiore fosse una casa e  quella di sotto una stalla, infatti ci sono ancora i segni dei ganci degli anelli per gli animali. Questa costruzione nel 1582 era già mappata”.

Claudio indica un punto sulla mappa e prosegue: “Barbischio era già menzionato e disegnato sulle antiche mappe dei capitali di parte guelfa fiorentina, disegnate a cavallo tra il 1580 e il 1595, e questo perché il 13 aprile 1558 ci fu un grande terremoto e crollarono parecchie torri. A Badia Coltibuono c’è una targa che commemora questo evento. Dopo il terremoto, Firenze doveva capire quali castelli fossero ancora in piedi, quali strade fossero ancora percorribili, così i fiorentini ridisegnarono una grande mappa di tutti i territori in loro possesso. Per realizzare la mappatura, vennero incaricati  i capitani di parte guelfa: un disegno manuale di tutte le zone colpite dal terremoto. Questa è l’estrapolazione di una grandissima mappa del Chianti dove c’è scritto luogo detto Barbischio. Nota la bellezza: in piedi c’erano tre delle quattro torri preesistenti, e ancora si vede la porta di accesso al castello, che fu abbattuta con il decreto Fanfani, in epoca moderna, perché le pietre servivano alla costruzione di altro. La strada che scende in basso è la vecchia strada selciata che porta a Gaiole, che non è quella asfaltata che facciamo oggi, ma  quella che  passava dietro al muro che costeggia la strada attuale e portava al mulino e che esiste ancora”.

Confermo, da bambina, qualche volta, l’ho fatta per scendere a Gaiole e ricordo che aveva un fascino particolare: passava in mezzo al bosco e io mi sentivo una piccola esploratrice.  “Come dicevo esiste ancora, ma oggi è impraticabile. Lì c’è una fonte bellissima dove si abbeveravano i cavalli e che, sicuramente, serviva anche di approvvigionamento per gli abitanti. Dicono che sia del periodo medievale, ma molto probabilmente è precedente. L’altra strada che sale verso il crinale e porta a Moncioni si incrociava qui, proprio nella piazzetta davanti a noi”. Sono due ore che stiamo parlando, il tempo scorre, purtroppo la campana della chiesa non segna più il mezzogiorno, l’ora in cui la mia nonna mi chiamava per la desina.  In compenso Vincenzo Petrizzelli, il cuoco de Il Papavero, ci ha portato due crostini di pane con sopra un ragù appena fatto, il profumo è inebriane oltre che evocativo, profumo di passato che si affaccia e si propaga nell’aria. Ovviamente pane rigorosamente sciocco: la mia considerazione a voce alta  dà, di nuovo,  il la a Claudio.

“Anche la storia del pane senza sale fa parte del nostro bagaglio culturale: ecco perché la storia è importante per capire il tuo oggi, il tuo quotidiano. Il pane senza sale risale al tempo in cui Firenze era in guerra con Pisa. Da Firenze passa il fiume Arno che  arriva a Pisa, ovvero al mare. Il fiume era navigabile ed era una grande via di comunicazione fra entroterra e mare. I pisani  avevano le saline e quindi il monopolio del sale, perché avevano la terra sul mare. Firenze e Pisa erano acerrime nemiche, e i pisani un giorno decisero di non inviare più il sale a Firenze, dimodoché i fiorentini non potessero più fare la salatura necessaria alla conservazione degli alimenti, della carne in particolare, di conseguenza la carne si sarebbe avariata diventando perciò immangiabile. L’esercito fiorentino, non avendo più potuto mangiare carne, potenzialmente, si sarebbe indebolito e allora Pisa, forse, avrebbe vinto la guerra. La storia ci insegna che non è andata così, ma loro ci provarono. I fornai non avendo più sale cosa decisero di fare? La cosa più ovvia: fecero il pane senza sale. Oggi si continua a farlo sciocco, perché con i nostri salumi che sono salati è più corretto, ma in realtà l’origine è proprio questa. Qui c’è un detto: Fiorentin mangia fagioli lecca piatti e romaioli, sottoterra c’è i quattrini accidenti ai fiorentini! Ecco, questo detto è legato anche alla fase successiva: sebbene fra Pisa e Firenze ci fosse stata una rappacificazione, le gabelle sul sale erano alte, il sale costava molto. Quindi i fiorentini pensarono: Sai icché si fa? Si continua a fare come s’è fatto finora, si fa senza! E infatti i piatti, tipo il peposo, la finocchiona e altri ancora hanno sempre questo fondo speziato, per questo motivo. Non avendo sale, continuavano a mangiare la carne, abbondando con le spezie che coprivano gli odori sgradevoli, vedi il peposo, che ha tanto pepe o la finocchiona, in cui il finocchio serviva a mascherare, a nascondere, a camuffare una carne avariata.

Da qui, il termine italiano infinocchiare che vuol dire fregare. Il verbo infinocchiare è andato avanti fino ai primi del ‘900, per quanto riguarda il vino. Fai una prova e non mi contraddirai: mangia del finocchio o un po’ di finocchiona e poi dimmi se  riesci a capire  il gusto del vino che stai bevendo. Il vino, una volta, era un prodotto naturalissimo. Ovviamente non tutti gli anni erano buoni per vinificare: se l’annata era balorda il vino non veniva bene, ma il contadino doveva comunque venderlo. In genere l’acquirente era il signore che se lo poteva permettere, e se quel vino non era buono, bastava  servire qualcosa a base di finocchio all’assaggiatore prima di versargli il vino: il finocchio spianava totalmente il gusto in bocca e quel vino risultava gradevole a prescindere.”.