Destinazione: Ixcán, Guatemala
Coordinate: 15°59′17″N 90°46′54″W
Distanza da Firenze: 9.709 km
È finita. Il 5 maggio scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha decretato che la crisi sanitaria internazionale dovuta alla diffusione a carattere pandemico di un nuovo tipo di coronavirus, denominato Covid-19, si può ritenere ufficialmente superata. Quindi la pandemia, da ora in poi, è una cosa di cui si può cominciare a parlare al passato, come si fa con un ricordo. Di Covid-19, in realtà, si continua a morire. Quando questo articolo verrà pubblicato, le persone che questa ostinata, subdola e bellicosa infezione polmonare si sarà portata via con sé, sfioreranno i sette milioni, stando ai dati ufficiali. È di loro che voglio parlare oggi; o meglio, di una parte di loro. E lo farò attraverso la caratteristica evoluzionistica che più di ogni altra ci differenzia da ogni altra specie vivente di questo pianeta: e cioè raccontando una storia.
I confini del Guatemala sono, per lunghi tratti, delle semplici linee dritte. La municipalità di Ixcán, nel dipartimento de El Quichè, si trova lungo una di esse, a ridosso del confine col Messico. La storia recente del Guatemala è intrisa di sangue e violenze di ogni genere: un colpo di stato, una guerra civile, varie dittature, scontri tra milizie armate ribelli ed esercito, ritorsioni, esecuzioni sommarie, massacri. Le foreste e le montagne della zona di Ixcán, nonché il vicino confine con il Messico, hanno dato rifugio – e offerto la possibilità di entrare e uscire dal paese – ai diversi gruppi rivoluzionari in lotta contro i governi autoritari, ma anche contro quelli democratici, che si sono succeduti dalla fine della guerra civile, nel 1966, fino agli accordi di pace del 1996. Questi ultimi hanno, sì, messo fine agli scontri e stabilizzato definitivamente la transizione democratica del paese, avvenuta formalmente nel 1986, ma dopo la fine dell’incubo della violenza e della repressione, per la gente di Ixcán, è iniziato quello della corruzione e del disinteresse dello stato.
Nel 1999 venne approvato un grande progetto di sviluppo infrastrutturale per la zona, che prevedeva la costruzione di una diga e di una cisterna per l’approvvigionamento idrico di 18 villaggi. I lavori si bloccarono quasi subito, perché i dodici milioni di dollari erogati erano spariti, finiti tutti nelle tasche di amministratori e politici corrotti. Nessuno di loro è stato mai indagato e, ancora oggi, quei villaggi usano l’acqua di un fiume dichiarato inquinato dalle autorità sanitarie locali. Le zone impervie su cui sono distribuiti i 176 villaggi del comune, sono collegate da 1500 chilometri di strade quasi tutte sterrate, e che quindi necessiterebbero di una manutenzione costante. Una di queste strade è impercorribile persino per i cavalli. Il cantiere per riassestarla è stato aperto quattro volte, e altrettante è stato fermato, perché i fondi erano finiti. Anche in questo caso nessun amministratore è finito sotto processo. Poi c’è l’ospedale. Ed è qui che inizia la nostra storia. Anzi, la storia di Daniel.
Il vecchio Daniel Cuyuch aveva un negozio, ad Ixcán. Ne era il proprietario da sempre, e in paese lo conoscevano tutti. Viveva nei locali retrostanti il negozio stesso. All’epoca dei fatti, nel 2020-2021, difronte al negozio c’era una clinica privata. La clinica è ancora lì, come il negozio del vecchio Daniel, probabilmente, ma il fondo ha di certo cambiato proprietario, e forse anche il nome; nel caso sarebbe un vero peccato, perché quello che Daniel gli aveva trovato, l’Almandro, suonava piuttosto poetico. Significa “il mandorlo”, ed era in onore dell’albero che ombreggiava quella porzione di strada. A poche centinaia di metri dal negozio-casa di David, c’era una struttura abbandonata, circondata da un perimetro di lamiere usate come stendi panni. Anche quest’ultima è ancora lì, e ci starà ancora per decenni, almeno fino a quando le infiltrazioni d’acqua e il degrado la faranno crollare. Avrebbe dovuto essere una struttura ospedaliera completa, con 48 posti letto, il simbolo del progresso e della presenza dello stato nella regione. Il cantiere venne inaugurato, in pompa magna, nell’aprile del 2014. A settembre i lavori erano già fermi. Nove anni dopo, tutto quello che rimane di questo progetto è un parallelepipedo di cemento armato con dei buchi squadrati al posto di finestre e porte, che sembrano inquietanti orbite nere di uno scheletro. Se finito in tempo, l’ospedale di Ixcán avrebbe salvato la vita di migliaia di persone. Anche quella del vecchio Daniel.
Il processo per corruzione che vede coinvolte la ditta vincitrice dell’appalto, funzionari pubblici e operatori privati, procede a ritmi lentissimi, e le speranze che i lavori riprendano sono quasi nulle.
L’unica struttura sanitaria operativa della zona era e rimane il Caimi, uno sgangherato centro medico dedicato alla maternità, con 14 brandine arrugginite, materassi sfondati e una sola incubatrice: se per caso due madri si trovano a dare alla luce contemporaneamente due bambini prematuri, uno di loro è destinato a morire perché l’ospedale più vicino è a quattro ore di distanza, a Cobán, lungo una strada quasi impraticabile, con un tempo di percorrenza di quattro ore. A chiusura di questo quadro desolante, ad Ixcán, non ci sono vere ambulanze. I mezzi adibiti a questo compito sono tre pick-up, su cui è montato una sorta di cassone, all’interno del quale viaggia lo sventurato paziente.
Durante i primi mesi della pandemia Daniel non lascia mai il suo negozio. Poi, nel 2020, si ammala. Si cura con dei rimedi naturali che, naturalmente, non hanno alcuna efficacia. Quando il Covid comincia a divorargli i polmoni, e la sua salute peggiora drasticamente, i familiari lo fanno ricoverare nella clinica privata davanti al negozio. Ci rimane due giorni e poi i dottori lo mandano via perché sostengono di non avere i mezzi per stabilizzarlo. Con un debito di circa mille dollari sulle spalle, e uno stato di salute in rapida compromissione, Daniel viene dirottato al centro di maternità. Proprio nel periodo del suo ricovero al Caimi, e in piena crisi sanitaria, il presidente guatemalteco Alejandro Giammattei, non trova di meglio che visitare Ixcán ed inaugurare il restauro di un ponte. La gente del posto organizza una manifestazione e chiede al presidente di far riprendere al più presto i lavori dell’ospedale. Con la retorica tipica di questi frangenti, Giammattei rassicura la popolazione, dicendo che quello è esattamente uno degli obiettivi prioritari del suo governo e che le procedure amministrative di riattivazione sono già in corso. Qualche mese più tardi una delegazione di donne si spinge fino alla capitale per chiedere che i lavori riprendano. Ma l’appello è destinato a cadere nel vuoto. Nel frattempo Daniel sta sempre peggio e il Caimi non ha i macchinari, né i medicinali in grado di aiutarlo. L’unica speranza è il viaggio di quattro ore fino a Cobán. Così viene caricato alla meglio dentro il cassone bianco, che ha solo due minuscole finestrelle ai lati e nessuna attrezzatura di soccorso all’interno, e l’ambulanza parte. Durante il trasferimento, sballottato dalle buche e dalle pozzanghere che rallentano il pick-up, e immerso nella più spaventosa delle solitudini possibili, Daniel si spegne piano piano, fino a quando – da qualche parte, fra Ixcán e l’ospedale – i suoi polmoni collassano. Voglio credere, voglio sperare che Daniel fosse già privo di conoscenza al momento della partenza, perché l’idea che quello squallido cassone bianco sia stata l’ultima cosa che ha visto prima di morire, è intollerabilmente triste.
Daniel è stata la prima vittima ufficiale del Covid-19 nella zona di Ixcán, ma sappiamo che la sua morte ha altri colpevoli, come sappiamo che questi ultimi non pagheranno mai abbastanza per i crimini che gravano sulle loro coscienze.
In memoria di Daniel Cuyuch, (1945-2021), originario del comune di Ixcán, Guatemala, morto di corruzione a 76 anni, e di tutti gli altri Daniel del mondo.
Fonte: Internazionale, Wikipedia