prima parte
Di solito, non converso molto in aereo. Neanche durante lunghi viaggi intercontinentali sono molto loquace, ma quel giovane atleta che incontrai, qualche mese fa, sul volo Amsterdam-Nairobi, mi sembrò un ragazzo di grande intelligenza emotiva, così comprensivo e paziente, che fu un piacere trascorrere qualche ora conversando con lui. Philip, così si chiamava, era un fondista ruandese che veniva da un meeting atletico in Olanda e tornava a casa dopo le gare. Il suo biglietto era stato pagato da uno sponsor europeo, poiché, mi disse: “In Rwanda non ci sono aiuti, se non hai denaro o amicizie influenti”. Probabilmente capì che quelle sue brevi parole mi avevano molto colpito, così iniziò a parlare a valanga, raccontando fatti di cui io avevo superficiale conoscenza, aiutandomi ad approfondirla.
“La mia famiglia apparteneva alla tribù dei Tutsi – mi disse Philip – che iniziarono ad essere decimati nel 1994 dalla tribù degli Hutu. In cento giorni, i combattenti delle milizie Hutu e i volontari delle cosiddette “Forze di difesa civile” uccisero circa 940 mila persone, secondo le stime ufficiali, assecondati da gran parte della popolazione Hutu, aizzata contro i Tutsi da una propaganda razzista durata mesi. Fino ad allora, l’ostilità tra la maggioranza Hutu, al governo, e la minoranza Tutsi aveva dato luogo a scontri, conflitti e tensioni ricorrenti, come succede in tutta l’Africa, un continente la cui storia è dominata dal razzismo tribale. Ma da quel giorno fu una caccia spietata ai Tutsi, per sterminarli, e con loro furono uccisi anche tanti Hutu, perché appartenenti a clan avversari di quelli al potere. Il genocidio era stato pianificato da tempo, negli anni precedenti erano stati acquistati centinaia di migliaia di machete: insieme a lance, mazze e asce, le armi con cui gran parte delle persone furono uccise. Sia i miei nonni paterni che quelli materni sono stati uccisi durante questa strage. Negli anni a seguire, anche mio padre fece parte del gruppo, fuggito in Uganda, che aveva costituito il Fronte patriottico rwandese (Fpr) e aveva ricevuto addestramento militare. Guidati da Paul Kagame, i soldati dell’Fpr entrarono in Rwanda, marciarono sulla capitale Kigali e presero il potere. Allora più di due milioni di Hutu cercarono scampo alla vendetta dei Tutsi oltre confine, in gran parte riversandosi nell’est della Repubblica democratica del Congo (all’epoca ancora chiamato Zaire), dove le Nazioni Unite allestirono in brevissimo tempo il più grande campo profughi del mondo, nei pressi di Goma, la capitale della provincia del Nord Kivu. Non c’è rwandese che non conti in famiglia una vittima o un carnefice. Oltre ai morti, decine di migliaia di persone furono ferite e tuttora portano impresso nel corpo il ricordo del genocidio. Si calcola inoltre che siano state violentate da 250mila a mezzo milione di donne. Il Rwanda, tuttavia, se pur con grande difficoltà, è tornato gradualmente alla normalità e oggi è tra gli stati più stabili del continente. Perché si conservi memoria del genocidio, ogni anno il governo rwandese organizza cerimonie ufficiali nella capitale e nel resto del paese e nel 2004, decimo anniversario del genocidio, le Nazioni Unite hanno proclamato il 7 aprile Giornata internazionale di riflessione sul genocidio contro i Tutsi in Rwanda.”. I media internazionali, in particolare quelli italiani, non hanno dato né peso, né spazio alla notizia, ma dal sito delle Nazioni Unite si apprende che, anche quest’anno, il segretario generale, Antonio Gutierres, ha diffuso un messaggio in occasione della giornata della memoria del genocidio di 29 anni fa: “Onoriamo la memoria delle vittime – ha detto Gutierres – per la gran maggioranza Tutsi, ma anche Hutu e altri che si opposero al genocidio, rendendo omaggio alla resilienza dei sopravvissuti. Riconosciamo il percorso del popolo del Ruanda verso la ripresa, la restaurazione e la riconciliazione e ricordiamo, con vergogna, il fallimento della comunità internazionale. Ad una generazione dal genocidio, non dobbiamo mai dimenticare quello che è successo, e fare in modo che venga sempre ricordato dalle generazioni future”.