parte prima
Questo mese, ho deciso di modificare la scaletta di pubblicazione dei miei articoli, poiché ritengo che, al momento, la situazione economica e bellica in Sudan (dove si combatte da oltre una settimana) debba essere analizzata e portata, più di sempre e con urgenza, all’attenzione del pubblico e degli organismi internazionali. In questa prima parte tratterò l’aspetto concernente gli scontri sul campo e le loro cause storiche, per continuare poi ad approfondire la situazione socio-politica ed economica del paese, dopo l’acquisizione dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Si combatte ormai da alcuni giorni, nel Sudan prostrato dalla carestia e dalla povertà. Lo scontro è tra esercito governativo e forze di supporto rapido (Rsf), l’organismo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, che sta tentando di prendere il controllo del paese. Se ci riuscisse, sarebbe il terzo colpo di stato militare in quattro anni, dopo quello che nell’aprile del 2019 ha destituito Omar Hassan al Bashir, mettendo fine a un regime autoritario durato 30 anni e portando alla guida del paese un Consiglio composto da militari e civili; e quello dell’ottobre 2021, con cui ha preso il potere l’attuale giunta militare presieduta dal capo delle forze armate, generale Abdel Fattah al-Burhan, che di fatto è il capo dello stato, con Hemmedti suo vice. A far esplodere, per la prima volta lo scontro armato, sono state divergenze sempre più profonde. La prima e prioritaria è quella che riguarda i termini e i tempi della transizione democratica promessa dai militari, per dotare il paese di istituzioni di governo, che, di fatto, non ha mai realmente avuto perché dal 1956, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, il Sudan ha conosciuto solo regimi sostanzialmente autoritari. Più grave ancora è la questione dell’integrazione dei 100mila militari delle Rsf nell’esercito e di chi sarà il capo delle forze armate unificate. Hemmedti vorrebbe rimandarla di dieci anni, mentre l’esercito governativo chiede che venga realizzata entro due anni. Al centro delle discussioni c’è anche, e non è di poca rilevanza, la richiesta popolare rivolta alla giunta militare di cedere le molte, redditizie, proprietà dell’esercito in vari settori dell’economia, da quello agricolo a quello commerciale, che costituiscono una fonte fondamentale di potere. Stati Uniti, China, Russia, Egitto, Arabia Saudita, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Unione Europea e l’Unione Africana nel corso della giornata hanno rivolto appelli a al-Burhan e a Helmedti. Chiedono una rapida sospensione dei combattimenti che minacciano la stabilità di un’area geopolitica, quella dell’Africa orientale, già caratterizzata da situazioni critiche: l’Etiopia, da poco uscita da un conflitto durato due anni, originato dalla ribellione del Tigré e costato centinaia di migliaia di morti; la Somalia, in guerra dal 1987, affondata da allora nel degrado prodotto da tribalismo, corruzione e integralismo islamico; il Sudan del Sud, indipendente dal 2011, nella morsa della guerra due anni dopo, scatenata dalle due etnie maggiori, i Dinka e i Nuer, e ancora irrisolta; lo stesso Kenya, il paese più stabile, tuttavia appena uscito da una drammatica prova di forza tra il presidente William Ruto e il leader dell’opposizione Raila Odinga. A tutto ciò si aggiungono la presenza di milioni di rifugiati e sfollati e una protratta siccità che ha colpito quasi tutta la regione e rischia di provocare una carestia di vaste proporzioni. Una notizia dell’ultima ora riguarda l’offerta di Egitto e Sudan del Sud di farsi mediatori. Ancora non ha ricevuto risposta. Come ben si percepisce, una situazione esplosiva in tutta l’Africa orientale che potrebbe presto ulteriormente degenerare anche perché, tutto il continente, al di là delle belle dichiarazioni di intento di pace, delle grandi potenze mondiali, negli ultimi due decenni l’Africa si è trasformata in un terreno particolarmente attraente per grandi e medie potenze, generando di fatto una vera e propria competizione.