• Ven. Nov 22nd, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Destinazione: Phom Penh, Cambogia

Coordinate: 11°34′10″N 104°55′16″E

Distanza da Firenze: 9.407 km

La strada che porta all’Illuminazione, si sa, è lunga e tortuosa. Molti ed imponenti sono gli ostacoli da superare. Il completo distacco dalle cose terrene, a favore di un’esistenza meramente contemplativa, libera dalle pulsioni e dalle impurità dell’animo umano, è un processo che richiede molto tempo e una rara forza di volontà. L’ascesi esige invisibilità. Ma la cultura moderna, che ruota intorno ai social media, spinge esattamente nella direzione opposta. TikTok, nello specifico, fomenta diabolicamente, e meglio di qualunque altro mezzo, la smania di protagonismo che segretamente alberga in ognuno di noi, al punto che nemmeno i monaci buddisti riescono a sottrarvisi. O almeno, non tutti. Quelli cambogiani, in particolar modo, sembrano avere un feeling particolare con TikTok, tanto che il fenomeno è noto anche come MonkTok. Sono tantissimi i giovani monaci di questo paese, che tra un rituale e l’altro, nelle pause dallo studio, dalla meditazione o dai compiti che devono assolvere durante il giorno, si prendono una fetta del loro tempo per pubblicare nuovi video. E lo fanno seriamente: voci fuori campo, filtri, effetti video, montaggio curato e tutto il repertorio. Alcuni monaci hanno più di mezzo milione di followers, un numero davvero rilevante, considerato il genere. D’altra parte, quando si entra in quest’ottica, l’unica cosa che conta sono i followers, indipendentemente dal contenuto che si vuole divulgare. Questo è uno degli aspetti che più suscita polemica e preoccupazione all’interno dell’ambiente religioso cambogiano: il monaco che sceglie di diffondere la saggezza attraverso TikTok, è portato, inevitabilmente, a perseguire la viralità – il vero mantra di quest’epoca –  mettendo progressivamente in secondo piano l’insegnamento. Principi quali “distacco”, “consapevolezza”, “equilibrio”, o “rinuncia”, il più simbolico di tutti, tendono ad essere dimenticati, se l’unica preoccupazione è quella di acquisire followers o “likes”.

Non diversamente dagli altri credi filosofici o dalle religioni vere e proprie, infatti, uno dei compiti più importanti di ogni buon monaco, è la divulgazione degli insegnamenti del Budda e del dharma, la legge universale naturale. Prima dell’avvento di TikTok – lanciato solo nel 2016, e diventato in pochi anni qualcosa di insostituibile per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo – molti monaci pubblicavano regolarmente su Facebook e YouTube. Ma TikTok ha sbaragliato il campo, e ha conquistato la preferenza assoluta, insieme ad Instagram, della fascia più giovane della popolazione social. Non è stato difficile comprendere, da parte di un primo gruppo di monaci particolarmente intraprendenti, le insperate frontiere che TikTok apriva alla diffusione del verbo buddista. Un nuovo, enorme bacino d’utenza era raggiungibile con facilità. Ma modalità e forma dei contenuti dovevano essere adeguati alle aspettative e in linea con i TikToker più seguiti: erano necessari ritmo, brevità, regia, soluzioni comunicative. Alcuni monaci, quelli più rispettosi del ruolo e della vocazione, si sono limitati a confezionare i loro post divulgativi in modo più accattivante, mutuando le tecniche usate dagli influencer o dai rappers. Ma per le rigide leggi del codice monastico buddista therevada – sono 227 regole e rappresentano una versione un tantino più ampia, invasiva ed intransigente dei nostri dieci comandamenti – già il solo apparire su TikTok va contro l’essenza del buddismo: il monaco non può fare sesso, non può mangiare dopo mezzogiorno, non può dormire in letti troppo comodi, non può indugiare in alcuna forma di divertimento terreno. Già all’epoca della loro vergatura, questi precetti erano pensati per evitare che i monaci fossero tentati di inseguire fama o successo personali. Se questo rischio c’era già allora, figuriamoci oggi, dove la notorietà si tiene in una mano e la si può costruire con pochi, semplici gesti.

In alcuni casi, i post sono al limite della blasfemia. Non è difficile trovare video di novizi che si inquadrano a torso nudo, oppure che cantano e ballano, scimmiottando le mosse sexy delle pop star, che fanno scherzi o, addirittura, che giocano d’azzardo puntando soldi. Per le autorità religiose cambogiane, tutto ciò offusca la reputazione dei monaci, esponendo l’ordine al pericolo di essere ridicolizzato e strumentalizzato. Si tratta, perlopiù, di account gestiti da ragazzi che entrano nel tempio giovanissimi – e magari per un periodo limitato di tempo – e, per i quali, la linea di demarcazione tra la loro appartenenza generazionale e i doveri monastici è molto più netta. Ciò li porta a pensare che, come fosse una specie di lavoro, una volta ottemperati gli obblighi religiosi, essi possano svestire i panni monacali e utilizzare a proprio piacimento il loro tempo.

Per adesso, nessuno scandalo è scoppiato e le contromisure si sono limitate al richiamo verso gli esuberanti novizi e all’obbligo di prostrazione verso il proprio tempio. Ma il numero di monaci che vanno oltre, mettendo in tal modo a rischio la propria dignità e quella di tutto il movimento, è in aumento. Ed è proprio questa tendenza a preoccupare, e a far nascere il dilemma: eliminare il problema alla radice, come i precetti imporrebbero, oppure tollerare TikTok, magari regolamentandone l’uso e l’accesso?

Come e più degli altri social media, TikTok è vettore e, allo stesso tempo, osservatorio dei convulsi cambiamenti in atto. Proibirne l’uso e, in tal modo, privarsi di un preziosissimo strumento di divulgazione, in nome della sua potenziale tossicità, d’altro canto, rappresenta una specie di condanna della comunità buddista cambogiana all’isolazionismo. Ma se è vero che, il più delle volte, non è lo strumento, di per sé, ad essere malevolo, bensì l’uso che ne viene fatto – si prenda ad esempio la polvere da sparo – è altrettanto vero che se non si riesce a cambiare l’uomo e la sua indole, è necessario eliminare lo strumento, per porre fine al danno. Perché la verità è che postare i video piace a tutti, persino ai monaci buddisti della Cambogia. Per la stragrande maggioranza di loro, il nocciolo della questione è tutto qui: divulgare la parola del Budda è bello, d’accordo; ma farlo attraverso un video, che magari diventa virale, è molto più fico.

Quando il velo compassato della storia si poserà su questi anni inquieti, e il nostro presente diventerà – per i decenni a venire – uno straordinario terreno di studi per le scienze umane e tutte le fantasiose diramazioni ad esse collegate, molte delle attuali riflessioni intorno al folle mondo dei social media perderanno, probabilmente, significato e valenza interpretativa, e fenomeni come il Monktok saranno solo materiale per parodie di future serie televisive.

Fonte: Focus, Wikipedia