di Veffa Ghirlanda
Mio padre era un uomo di mare, rude ma tenerissimo. Ha passato la sua vita viaggiando: non so quante volte ha fatto il giro del mondo. Si è sposato a 42 anni con una ragazza di 27 anni e poi sono nata io. Quando sono venuta al mondo, lui non c’era. Mi vide per la prima volta quando avevo sei mesi. “L’attesa” è stata la musica della mia infanzia e della mia adolescenza: l’attesa di una sua lettera da leggere tutti insieme, l’attesa di una sua telefonata, l’attesa dei suoi ritorni, dei suoi sorrisi, delle sue carezze ma soprattutto l’attesa dei suoi racconti, perché lui era un vero affabulatore.
Ricordo un grigio pomeriggio di novembre, alla stazione di Carrara-Avenza: avevo circa 15 anni, ed ero in attesa di un treno. Erano due anni che non vedevo mio padre. La sua assenza era stata lunghissima, mia madre l’aveva raggiunto in vari porti, ma io non avevo potuto andare e non lo avevo più visto, e, soprattutto, lui non aveva più visto me. Mi ero leggermente truccata, che era già un azzardo. Mi ero preparata con cura e aspettavo, stretta in un cappottino blu corto, dal quale uscivano le mie gambe magrissime fasciate in calze di nylon, probabilmente una delle prime volte che le mettevo. Ero arrivata un’ora prima: un tempo lunghissimo un’ attesa bellissima che aveva segnato la mia metamorfosi, il mio cambiamento, il mio passaggio. Poi arrivò l’annuncio del treno e io cominciai a sgomitare tra la gente per farmi spazio, finchè… eccolo! L’uomo con la valigia era mio padre. Gli corsi incontro e lo abbraccia. Lui mi staccò da sé un po’ perplesso. Mi guardò, riconobbe nella ragazza che aveva davanti la sua bambina e mi strinse forte, scoppiando in lacrime. Non avevo mai pensato che mio padre sapesse piangere.
È passata una vita da quel momento, ma il ricordo è ancora nitido e io…vorrei rivivere quell’attesa.
Illustrazione di