seconda parte
Nel 2004, l’allora console onorario di Mombasa, conoscendo i miei studi e la mia esperienza, mi candidò al Coast General Hospital di Mombasa, che aveva fatto richiesta di esperti in psicoterapia, per addestrare, con approfondimenti teorici ed empirici, i neo laureati in medicina interessati alla branca psicoterapeutica.
Quell’opportunità, durata quasi tre anni, mi ha fatto fare un grosso salto di qualità sulle conoscenze di medicina tradizionale africana. Fortunatamente, infatti, mentre io cercavo di offrire ai colleghi kenyoti la mia esperienza di psicoterapeuta sistemico, da me portata avanti a Milano, per oltre 15 anni, assorbivo, contemporaneamente conoscenze, dal racconto dei giovani medici e delle loro esperienze coi capi villaggio e con gli stregoni, circa la soluzione delle malattie mentali e oltre.
Un dato di fatto non disconoscibile che appresi quasi subito, è che il riferimento sanitario primario per la popolazione, tanto rurale quanto urbana, è quello alla cura tradizionale, prima nella forma di auto-medicamento e, poi, di consultazione dei terapeuti afferenti al cosiddetto “Vodoun“: accade spesso, perciò, che coloro i quali ascrivono la malattia ai malefici, di cui credono essere vittime, preferiscano non recarsi in ospedale, considerato che per la credenza culturale il male spirituale non potrà trovare una cura in quel contesto razionalizzato.
Mi colpì in particolare il racconto del dottor Fiorenzo Chege, medico tuttofare, il quale, sebbene avesse la convinzione che la medicina tradizionale fosse per lo più deleteria (e lo è spesso, quando mal utilizzata), visibilmente commosso, mi ha raccontato un episodio molto interessante, ma al tempo stesso inconsueto, che vi riporto.
Un giorno, un uomo di spiccata rilevanza sociale all’interno del villaggio Kiembeni (così lo definì) si presentò alle porte dell’ospedale con la figlia di un paio d’anni con crisi convulsive. Per tutta la giornata, il collega si occupò della bambina senza ottenere risultati, anzi, la situazione andò aggravandosi man mano che il tempo passava. La mattina seguente, il padre, con fare esitante, chiese il permesso di poterla far visitare da vecchio del villaggio. Il dottor Chege, se pur titubante riguardo l’esito di questa soluzione, acconsentì. Una settimana dopo, accompagnato da cinque polli e dalla figlia per mano, il dottor Chege si vide arrivare il padre, che voleva ringraziarlo di aver lasciato loro la possibilità di tornare a casa. Il padre gli riferì che il vecchio saggio, effettuate tre piccole incisioni sulla testa, spalle e torace della bimba e avvalendosi dell’utilizzo di una “strana” polvere, era riuscito ad arrestare le convulsioni.
Da quel giorno, il dottor Chege afferma di aver ottenuto ottimi risultati, studiando a fondo gli effetti curativi delle piante e facendo seminari sparsi su tutto il territorio della contea. Egli, infatti, nonostante sia stato molto attento e ricettivo nell’ascolto del mio training, utilizza venticinque delle circa trecento piante a lui conosciute per curare i suoi pazienti, poiché vuole avere le prove scientifiche e quindi la certezza degli effetti benefici, anche di questi medicamenti.
Il più grande pericolo rimane, tuttavia, a mio giudizio, l’utilizzo incontrollato di questi rimedi indigeni da parte degli “stregoni“, i quali, nella maggior parte dei casi, non riescono ad ottenere i risultati, si fanno pagare profumatamente dalla povera gente, approfittando delle loro credenze.
Ho voluto riportare questa testimonianza diretta, per comprendere a fondo quanto ancora la medicina occidentale possa apprendere ed utilizzare tecniche a noi sconosciute per migliorare, se non curare, alcuni quadri patologici. Mi ritengo molto soddisfatto ed entusiasta per aver avuto la possibilità di partecipare a questo progetto, che mi ha permesso di aprire la mente, ma soprattutto il cuore nei confronti di un mondo che ha tanto bisogno di amore, in un periodo storico tanto delicato quanto aspro, per l’Africa, come quello in cui ci troviamo.