Sono trascorsi ormai due decenni dall’arrivo del secondo millennio, ma l’Africa mostra, forse con maggiore evidenza rispetto al passato, il coesistere di modelli di sviluppo e assetti disparati in campo economico, demografico, politico. Tendenze positive e negative individuano ambiti spaziali pressoché continui: a nord del Sahara e nella parte australe del continente, stanno sempre più prendendo vita andamenti progressivamente migliori, sia pure fra incertezze e contraddizioni, mentre nel resto del continente si continuano a riscontrare le condizioni di vita più deplorevoli al mondo.
Sotto il profilo demografico, il ritmo di crescita della popolazione e alcuni elementi strutturali negativi, sono in attenuazione. L’Africa, ad oggi, accoglie oltre un miliardo di persone: è il continente con il più alto tasso di crescita (quasi 2,3 per cento annuo) e la sua popolazione negli ultimi vent’anni è aumentata di quasi il 50 per cento.
A conferma, però, delle enormi contraddizioni esistenti qui, questo è anche il continente con il più alto tasso di mortalità infantile (7,1 per cento) e la più bassa aspettativa di vita (57 anni). Questi e altri indicatori vanno, comunque, mostrando un miglioramento: all’inizio del primo decennio del duemila la mortalità infantile sfiorava il 9 per cento e la speranza di vita non raggiungeva i 52 anni, mentre nei primi anni ottanta del novecento, il tasso di crescita aveva raggiunto il massimo con il 2,8 per cento annuo. Occorre però insistere sulla drammatica divaricazione dei valori tra singoli paesi, talché le medie continentali assumono un significato davvero esiguo. Se la mortalità infantile in Libia è dell’1,3 per cento (alcuni degli Stati insulari presentano tassi anche migliori), in Ciad raggiunge il 12, per cento. In un rapporto che, sostanzialmente, è di 1 a 10. La questione demografica è solo un aspetto, e non necessariamente il più rilevante, malgrado i ricorrenti allarmi sul sovrappopolamento del continente, della generale situazione.
A tutto ciò, si intrecciano continue turbolenze politiche, interne e internazionali, che investono quasi indifferentemente tutte le regioni con l’unica, e parziale, eccezione dell’Africa meridionale. Si verificano, quindi, fenomeni come la perdita di rilevanza e di autorità degli stati, dall’Africa settentrionale al Golfo di Guinea, all’area nilotica ed il bacino del Congo, alla virtuale scomparsa di altre Nazioni come la Somalia, oppure alla perdita di coesione di altri come la Nigeria, la Repubblica Democratica del Congo o anche alla nascita di altri ancora (Sudan Meridionale).
I divari e la disparità dipendono, in gran parte, da meccanismi di crescita economica discontinui, vulnerabili, dipendenti dall’esterno ed, in generale, così gravemente squilibrati all’interno, da non garantire un’adeguata redistribuzione della ricchezza. Neppure i paesi che presentano surplus commerciali o produzione interna elevata, riescono a crescere costantemente, poiché perennemente soffocati da situazioni sociali irrigidite e generalmente deficitarie (sono africani gli ultimi Paesi nelle liste mondiali per indice di sviluppo umano e per PIL pro capite), che tra l’altro concorrono a spingere all’emigrazione le classi giovanili e istruite. Inoltre, la persistente intromissione di poteri economici, politici e militari esterni al continente, come, ad esempio i cinesi, già citati nel mio articolo “Africa ancora in catene”, che, in una forma o nell’altra, finiscono per perpetuare condizioni di subalternità le quali inibiscono l’innesco di processi autopropulsivi.