Nelle mie interviste c’è una domanda che rivolgo sempre agli artisti: cos’è per lei la fragilità? A Claudio Roghi, invece, chiedo se riesce a cogliere le fragilità nei “suoi ragazzi” e se queste possono essere potenzialmente dei punti di forza…
Fragilità e forza sono due concetti contrastanti, ma entrambi sono importanti e fondamentali per la sopravvivenza e il successo. Ogni artista ha la propria fragilità, che diventa una forza, insieme alla mia forza e che lo fa “venire fuori”. Dalla disperazione, alle volte, nascono quadri stupendi. Se un artista si chiude in se stesso va in depressione, ma se unisci uno stato d’animo fragile con un elemento che ti dà sicurezza, uscirà dolcezza e il meglio che ha in sé. Fragilità più forza sfociano in risultati incredibili, quindi ciò che è necessario è una figura che li aiuti a trasformare.
Quanto il suo ruolo è determinante per indurre “il volo” a un artista?
Io non induco il volo. Certo è che il rapporto con me sarà sempre nel loro cuore, questo è quanto auspico. Ogni persona ha un volto e un’anima: se non lo cambieranno, se resteranno fedeli a questo, arriveranno. Mi sento come l’aquila che butta l’aquilotto fuori dal nido quando ha paura e il mio obiettivo è creare loro addosso qualcosa di solido: amore per l’arte e rispetto per le persone. Ciò che costruisco è il rapporto artista-curatore, poi andranno da soli. No, non li induco: io li spingo quando sono pronti a volare.
Mi rifaccio alla domanda “non si può piacere a tutti”, per introdurne una nuova. Nel corso della storia sono stati tanti gli artisti incompresi, molti di essi hanno raggiunto la notorietà post-mortem, c’è un perché, una spiegazione?
La spiegazione è che molti artisti non hanno avuto successo o notorietà in vita perché alcuni venivano odiati, o perché erano scomodi, o perché conducevano una vita di dissolutezze, oppure come si dice in toscana: perché erano dei testoni. Le faccio l’esempio di Modigliani, non veniva apprezzato per il suo stile di vita dissoluto e i suoi quadri, di conseguenza, non avevano mercato. Dopo la sua morte un mercante d’arte raccolse i suoi lavori, organizzò mostre, lo fece conoscere al grande pubblico e fece anche un libro, da quel momento Modigliani decollò. Molti artisti sono stati rivalorizzati post-mortem, perché molte fondazioni hanno comprato le loro opere, fatte conoscere al grande pubblico e fatto il libro. Oppure, ci sono stati casi in cui le famiglie degli artisti, cadute in disgrazia, vendevano le opere alle banche, che creavano mostre e volumi.
Rimanendo sempre sulla traccia di questo discorso, cosa influenza i gusti del pubblico?
Il pubblico dipende da due fattori: che tipo di mostra fai e che tipologia di opere proponi e dove le esponi. È importante studiare un popolo “da quello che mangia e da come si muove”. È importante dare la novità. Bisogna sempre studiare dove collocare una mostra.
L’arte è bellezza, un patrimonio da condividere. C’è o potrebbe esserci un modo affinché sia fruibile a tutti?
Se diventassi presidente di uno stato? Musei aperti a tutti e poi fate un’offerta. Sono più che certo che la gente sarebbe generosa. Lo stato dovrebbe consentire a tutti di beneficiare della bellezza. I musei sarebbero pieni e il guadagno arriverebbe con l’indotto: merchandising. E perché non prendere in considerazione la possibilità di godere dell’arte, magari, mentre sorseggi un caffè, oppure di poter consumare un pasto, uno snack, uno spuntino, in una location che abbia una connessione, per esempio, con la Galleria degli Uffizi: mangi e poi, dopo aver saziato la fame fisica, soddisfi quella emotiva, sensoriale, intellettuale, mentre percorri il corridoio Vasariano. Ho già in mente lo slogan: “Digerisci ammirando”.
Contemporaneità e arte storicizzata, quale relazione c’è fra esse?
Possiamo rendere contemporaneo anche un artista del passato. Prendo la pietà di Michelangelo, gli dò una martellata sul naso e lo rendo contemporaneo. Ovviamente sto scherzando, ma l’esempio che le ho fatto è per farle capire che parlare di un artista del passato lo riporta alla contemporaneità. Altro esempio: Munch divenne più famoso quando, nel 1994, venne rubato ad Oslo il suo quadro “L’urlo”, il che lo rese subito contemporaneo, perché fu la circostanza a renderlo tale. La contemporaneità non ha connotati specifici, è l’arte del momento, ecco cos’è: il vissuto del momento. E comunque, detto fra noi, quando il concettuale passa quello che è il pensiero filosofico più estremo, mi devono spiegare a cosa serve.
Come ci si avvicina all’arte contemporanea? Quale tipo di approccio è necessario per comprenderla?
L’arte deve esprimere gioie e passione e liberare la mente da tutti i preconcetti: se mi fai fruire qualcosa che mi terrorizza e mi dà incubi, per me, non è arte e non si può chiamare arte. Io sarò obsoleto, ma ci sono “opere” che sono, per me, spazzatura per menti instabili.
A quanti anni ha iniziato a muovere i primi passi nel mondo dell’arte?
Come collezionista e stimatore a 12-13 anni. Si parla del 1972-1973, avevo ancora le braghe corte. Il primo quadro che ho acquistato fu di un pittore, Eliano Fantuzzi, che mi chiese 50 mila lire, andai a casa a chiederle alla mia mamma. Riuscii ad ottenere, se non ricordo male, 20 mila lire, dopo una rocambolesca trattativa, alla quale ne seguì un’altra con il Maestro Fantuzzi, a cui proposi un pezzo di quarzo del Monte Serra, per raggiungere le 50 mila lire che mi aveva chiesto. Accettò e così potei comprare il quadro. Questo mi dette una grande gioia, tanto che, pochi giorni dopo, andai a trovarlo per ringraziarlo ancora e lui mi restituì il pezzo di quarzo. Da allora sono rimasto nel mondo dell’arte e di lì a poco ho cominciato a scrivere appunti. In seguito iniziai a interessarmi alle incisioni. Ho studiato veramente tanto e ancora studio, non mi basta mai. Quando si fa qualcosa per passione non si hanno limiti e non ci si pongono neanche, altrimenti per mestiere stacchi il venerdì e riattacchi il lunedì. Io ho bisogno di sapere e questa è la mia forza: faccio ciò che mi piace e lo faccio con passione. Non rincorro i sogni degli altri, ho i miei.
Cosa spinge l’operaio dell’arte, Claudio Roghi, a diventare un collezionista?
Sono un collezionista, ma la bellezza non sta nel possedere, bensì nel condividere. Nell’arte mi manca sempre un qualcosa, mentre, nella vita, non mi manca niente, perfino nel frigo abbiamo il doppio di quello che mangiamo. L’arte è una “cosa” grande, complessa, è il senso del gusto e della critica dell’opera. È quello che ci regala, e di nuovo le dico che questo bello lo si deve condividere, far sì che anche gli altri ne godano. L’arte è un elemento di emozioni e gioia in ogni momento. Spesso discuto, fra me e me, con il quadro: io dico qualcosa e lui mi dice altro. Quando vado a visitare musei, non avverto la stanchezza e non sento né sete né fame: l’arte mi dà pienezza. Questo dovrebbe essere anche per i nostri ragazzi. In alcuni musei importanti trovi la completezza di quello che è il mondo, il passato, il bene, il male, l’iconografia ha quello che è il massimo esponenziale del concettuale, c’è per n’è per tutti i gusti. Il bello è nato 5000 anni fa, e senza la tecnologia attuale. L’arte può essere la salvezza del mondo, un antidoto per l’umanità! Se nelle scuole venisse istituita anche solo un’ora a settimana dedicata all’Arte, sarebbe un ottimo modo per avvicinare i ragazzi a questo universo, comprenderne la complessità e la pienezza formerebbe loro uno scudo contro lo schifo nel mondo. Il passato ci può solo insegnare e tutti noi abbiamo un grande compito: divulgare per dare un presente migliore a un futuro incerto.
Ha mai avuto il desiderio di dipingere o scolpire?
Sì, ma mi conosco e, facendo il critico, ho paura di me stesso. Perché? Non mi reputo all’altezza ed è questo il motivo che mi crea paura. In confidenza sono bravo a scolpire, ho fatto restauro ad altissimo livello. Le mostro la foto di una locandina… vede questa sedia e questo cono? Sono sculture mie. Be’, a questo proposito, vorrei ricordare il mio amico Pietro Mosca, medico cardiologo e psichiatra, nonché artista, musicista, scrittore. Le due opere “L’oltre” e “L’oltre il Pensiero” sono frutto di una sua idea, diciamo un’ispirazione onirica, alla quale, poi, dette vita. Mi chiese di collaborare come regista, -Uto è il mio pseudonimo. Fu un’esperienza incredibile. Avevo sentito parlare di Pietro nel 1992, in occasione delle Colombiadi, dopo qualche tempo lo conobbi, grazie a un amico comune, avemmo una frequentazione sporadica fino al 2009, quando iniziammo a collaborare. Nel 2010, Pietro decise di fare un libro di arte ed io, in quanto storico, ne correggevo le inesattezze. Da quel momento, tutto ciò che scriveva lo sottoponeva alla mia attenzione. È stato un percorso intenso, durato 13 anni, in cui ho imparato tanto da lui, aveva un’anima spirituale e un’inventiva disarmante. Con la sua morte, avvenuta il 5 maggio 2018, ho provato un enorme vuoto, quando studiavo, per me, era un grande punto di riferimento. Lui mi diceva che ero una Treccani viaggiante, io gli rispondevo che la Treccani viaggiante era lui, con un’altra enciclopedia sopra. Pietro Mosca era un uomo, con la U maiuscola. Sotto l’aspetto umano era incomparabile e ha segnato il mio percorso con il suo ritmo, altrimenti io avrei “camminato” con più flemma.
Sull’onda di quel ritmo perché non riprendere a scolpire o a relazionarsi con la tela bianca?
La tela bianca per ora è, e rimane, bianca. Mi sono rassegnato però, chissà… mai dire mai. Una cosa è certa, qualora decidessi di mettermi in gioco e superare la paura, punterei su una pittura meno concettuale per lavorare sulla parte più fruibile all’occhio. Di “concettualoidi” ce ne sono tanti, bastano loro! Essere artisti è creare qualcosa che altri non hanno fatto. Un artista ci mette l’anima.
Progetti futuri?
Quest’anno lo finisco come l’è! Però l’idea futura, di un futuro prossimo, è dare una svolta: lasciare tutte le attività industriali e convertirmi alla divulgazione scientifica e dell’arte per scuole, ospedali e luoghi ove ci sia sofferenza. Per quanto riguarda le scuole, ho già avuto occasione di rapportarmi con i ragazzi, posso spaziare in un mondo molto vasto: preistoria, storia, e altro ancora per catturare il loro interesse. Mentre per quanto riguarda le RSA e gli ospedali, l’idea è di organizzare presentazioni di arte per alleviare, anche se per un tempo circoscritto, la sofferenza. Il tutto continuando a seguire i “miei ragazzi”. Be’ che dirle oltre, il mio intento è fare, oggi e in futuro, cose che portino il bene e la bellezza.
La domanda, a questo punto, è d’obbligo: cos’è l’arte per Claudio Roghi?
Risposta brevissima: per l’arte, dopo la mia famiglia, darei la vita.