Le fonti storiche
L’area apuana non ha, nell’insieme, una grande documentazione storica da esibire, né letteraria, né documentale. Non ha, neppure, una grande archeologia, se si esclude ovviamente l’area archeologica di Luni. A livello documentale, comunque, abbiamo due fonti principali, che parlano in qualche modo degli apuani. Una è il codice 324 dei Codices Vindobonenses (codici viennesi, da “Vindobona” cioè Vienna) che è più comunemente conosciuto come Tabula Peutingeriana, e l’altra è il Codice Pelavicino.
Gli scavi, in territorio apuano non sono stati molti e ciò che è emerso deriva, per lo più da ritrovamenti casuali e non da ricerche mirate. Un caso a parte è da considerare il Duomo di Carrara, che, sicuramente nasconde qualche mistero, anche perché non c’è unità di vedute sulla sua opera di edificazione. Per un certo periodo sono stati ipotizzati scavi archeologici nella zona di piazza delle Erbe e in quella del Duomo, ma le autorità li hanno immediatamente cassati. Quindi restano le fonti scritte come principali testimonianze di un passato molto lontano nel tempo.
La Tavola Peutingenaria offre una rappresentazione dipinta (picta) di tutto il mondo conosciuto al tempo in cui fu realizzata, riporta i principali itinerari del tempo ed è risalente ai primi secoli dell’era cristiana. È una copia medievale (si suppone del XIII secolo) di un originale tardo-imperiale, a sua volta riconducibile al conosciuto “Orbis Pictus”, che Augusto fece preparare, e quindi esporre, nel Porticus Vipsania in Campo Marzio a Roma, sulla base dei dati forniti da Marco Vipsanio Agrippa.
La Tavola Peutingenaria è una pergamena arrotolata intorno a due assi di legno (volumen), con una lunghezza di 6,80 metri circa ed un’altezza di 33/35 centimetri. È sicuramente unica nel suo genere: un “Itinerarium pictum”, di cui non è noto il sito del ritrovamento. Sono state supposte varie località, tra cui Worms, Basilea, Speyer, Tegernsee, e Colmar. Questo documento antico fu, comunque, trovato e poi perso e poi ritrovato e riperso alcune volte e, di esso, sono uscite diverse pubblicazioni nei secoli scorsi. Ma più che la vicenda dei suoi vari ritrovamenti è interessante fare un’analisi descrittiva della sua lettura, delle difficoltà che pone e delle conseguenti interpretazioni.
Il tipo di mappa della Tavola Peutingenaria è in contrapposizione ad un’altra carta stradale, in forma di libro, sempre di quel tempo, chiamata Itinerarium Antonini. Quest’ultima era un itinerarium adnotatum, come lo definisce Vegezio, scrittore romano, aristocratico, morto nel 450, cioè con “note”, che indicano le distanze ed altre note successive che l’estensore, o poi il copista, ritennero necessario inserire. Questo itinerarium adnotatum è ritenuto risalire a Marco Aurelio Antonino Augusto, meglio conosciuto come Caracalla, e datato dunque al III secolo, e comprende una parte terrestre, conosciuta come “Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti” ed una navale, conosciuta come “Itinerarium Maritimum Antonini Augusti”. Si ritiene che questa estensione dell’Itinerarium sia, comunque, già una copia di un originale risalente ad Antonino Pio, figlio adottivo e successore dell’Imperatore Adriano, che regnò nel “secolo d’oro” di Roma (deceduto nel 161). Questo Codice, l’Itinerarium, ci è giunto grazie al ritrovamento di un altro Codex, il Codex Escurialensis, trovato, come dice il nome, all’Escorial di Madrid e datato al VII secolo. Di questo Itinerarium, va detto, che ne cominciarono ad uscire copie su copie, finché non ne fu prodotta una copia “falsa”: i dati riportati erano difformi dalle distanze reali, ma ritenuti attendibili. Si trattava del “De Situ Britanniae”, libro pubblicato nel 1757, che era, praticamente, un “falso” realizzato dallo scrittore inglese Charles Bertram. Costui si era basato, a sua volta, sul racconto di un monaco benedettino dell’abbazia di Westminster, tale Richard di Cirencester, nativo di una piccola cittadina del Gloucestershire, che risulterebbe aver fatto un pellegrinaggio, sulla fine del XIV secolo, fino a Gerusalemme. Le informazioni non erano affatto attendibili e l’aver incluso questi dati in varie copie successive dell’Itinerarium contribuì ad ottenere abbastanza dati non corrispondenti alla realtà. A questa causa si aggiunsero le difficoltà del latino ecclesiastico nei confronti di una lingua volgare, il nascente inglese, sempre più strutturata e, poi ancora, le differenze amministrative dei distretti descritti, dove alcuni luoghi non corrispondevano più a situazioni reali. In pratica le copie stampate nei secoli scorsi, in particolare del XVIII e XIX secolo, sono come un collage delle copie precedenti, a loro volta copiate in modo non proprio fedele.
Tra gli itineraria adnotata va ricordato anche il Burdigalense, detto anche “Hierosolymitanum”, dalle città di partenza e di arrivo (Bordeaux e Gerusalemme) di un viaggio, che un anonimo pellegrino nel IV secolo fece tra queste due città. Da ricordare anche il Gaditanum, che descrive, anch’esso, il viaggio di un altro anonimo pellegrino tra Cadice e Roma, durante il IV secolo, e di cui si ha notizia grazie al ritrovamento archeologico di quattro vasi cilindrici d’argento a Vicarello, sul lago di Bracciano. In questi altri “itineraria”, comunque, non vi sono elementi che si riferiscano alla zona apuana. L’ultimo itinerarium pictum da ricordare è un esemplare originale: un “tegumentum” (copertura in pelle) per scudo, rinvenuto a Dura Europos, di cui restano, oggi, le rovine in Siria, appartenente a un soldato ausiliario della Cohors XX Palmyrenorum. Le “cohortes” erano formazioni ausiliarie alle legioni, costituite da uomini di fanteria e cavalieri, una sorta di moderni reparti speciali, in questo caso tutti reclutati nella zona di Palmira, luogo in cui oggi c’è un sempre più scarno sito archeologico per noti motivi. In questo itinerarium è raffigurato il Mar Nero con la Crimea e, si pensa rappresentasse l’itinerario seguito dalla cohors in quelle terre e in quel mare. Scritte col nome latino, traslitterato in greco i nomi delle città attraversate, tra cui Cherson, famosa, purtroppo, in questo periodo per altrettanti noti motivi. L’immagine è rovesciata, secondo l’uso romano che riteneva che il sud fosse in alto
Tra le curiosità vanno aggiunte anche le famose “Carte Geografiche”, dipinte in forma di affreschi in Vaticano e risalenti sul finire del XVI secolo, eseguite su commissione di Papa Gregorio XIII. Mancano le “viae” e, più che altro, servivano a permettere al papa di “viaggiare per l’Italia senza uscire dal Vaticano”. Sul soffitto sono presenti gli aspetti religiosi delle varie parti d’Italia a raffigurare l’unità spirituale del paese. L’aerea apuana è presente all’interno dell’affresco dedicato alla Toscana “vista dal satellite” Da notare, comunque, che le mappe geografiche furono un motivo decorativo frequente durante il Rinascimento. Le Carte Geografiche visitabili esistono, infatti, nel Palazzo Comunale di Viterbo e a Firenze, sia a Palazzo Vecchio, sia agli Uffizi.