Avvocato, avvocata o avvocatessa? Se il mio intento era far sorridere Alessandra, ci sono riuscita per metà, ma la mia è una curiosità, e quel mezzo sorriso con gli occhi puntati su di me, danno già la misura di quale stoffa sia fatta. “Alcune colleghe si fanno chiamare avvocate, e ci tengono molto, a me poco importa di come vengo chiamata, però mi presento come avvocato: sono l’avvocato Guerrini”.
Le chiedo se si reputa una figlia d’arte, visto che anche il padre, Giulio, è un avvocato. La risposta è affermativa: era predestinata, anche se in realtà non era il mestiere che avrebbe voluto fare. Tiene a precisare che l’idea di percorrere la strada paterna, non l’allettava per niente, forse più per ribellione che per altro. Infatti, per tenere fede al carattere ribelle, annuncia ai genitori che da grande fare l’architetto, forte del fatto di essere brava in matematica e, fermamente affezionata all’idea di disegnare, confidando di imparare a farlo una volta all’università. Decide di iscriversi al liceo scientifico. Non trova opposizione da parte dei genitori, non solo, il padre si congratula con lei: “La legge è logica e ti prepara alla giurisprudenza, ergo, ottima scelta!”.
Fin dal primo anno al liceo, Alessandra realizza di non amare la matematica, anzi, specifica: “Ho scoperto di odiarla, e per quanto riguarda il disegno tecnico, non ci capivo niente!”. Durante i cinque anni, riesce a trovare il modo di mettere a frutto la materia nella quale eccelle: baratta i compiti di latino con i disegni tecnici di un compagno. Precisa, inoltre, che in classe aveva tre compagni bravissimi sia in disegno tecnico che artistico e che questo le fece capire che architettura non poteva fare per lei. Scartò perciò il sogno di diventare architetto, o architetta, puntualizzo io, giusto per non perdere la briosità della conversazione. Non solo architettura venne scartata ma lo furono anche tutte quelle in cui fosse presente la matematica e, mentre era in balìa su quale indirizzo prendere, la mamma, Rosanna, le indicò la strada: giurisprudenza, con la possibilità di avviarsi alla professione nello studio del padre.
Alessandra decide di intraprendere quel cammino, che le era già stato indicato anni addietro. La facoltà le piace, mi dice che l’ha amata da subito, fin dal primo anno e che non solo la rifarebbe, ma farebbe il classico anziché lo scientifico, e ringrazia i genitori per il loro supporto e suggerimento. “Questo è un mestiere che mi piace e che sento mio” lo dice con enfasi e con trasporto, tanto che mi verrebbe voglia di assistere almeno una volta a un processo.
Nel corso del primo anno di facoltà, voleva fare il magistrato, poi il penalista, perché affascinata dal diritto penale, del quale aveva una visione romantica. Alla fine decise di fare la civilista. E questo mi spinge a chiederle perché scelse questo ramo. Il motivo è che, a Firenze, gli studi in cui fare pratica come penalista erano pochi, per cui seguì il suggerimento del padre, che lei chiama perla di saggezza: il diritto penale come procedura è più semplice del civile, poteva iniziare come civilista e poi cambiare, se lo desiderava, anche perché non sarebbe stato difficile, mentre non era altrettanto vero il contrario. “Ecco perché ho fatto questa scelta. Faccio prevalentemente diritto di famiglia: questo ramo è più seguito dalle donne rispetto agli uomini, probabilmente perché più portate; in questa branca sono necessari empatia e sensibilità, le donne tendono a metterci più cuore, più partecipazione forse per immedesimazione”. Afferma che in questo ramo è meno penalizzante essere donna, e alla mia domanda se, talvolta, ha incontrato o incontri difficoltà risponde in maniera determinata: “No, ho un carattere abbastanza battagliero”.
Anche qualora avessi avuto dubbi, sarebbero stati fugati dalla sua postura: leggermente protesa in avanti, spalle erette, mi sfodera un sorriso, che va a braccetto con lo sguardo fisso e deciso. Questo è l’avvocato di oggi con 20 anni di mestiere alle spalle, compresi quelli di pratica, ma la mia curiosità si concentra sulla sua prima udienza. Aveva 28 anni circa, era praticante con patrocinio, si presentò davanti al giudice da sola: paura, mani gambe e voce che tremavano, anche se in studio con il babbo la chiamavano scherzosamente “la causa dei polli”, doveva confrontarsi con la controparte, rappresentata da un avvocato che, seppur giovane, e che lei definisce “avvocato vero”, era fermamente intenzionato a vincere.
Questa “causa dei polli” mi proietta in un film in bianco e nero di Totò e mi viene da ridere, la risata è contagiosa e Alessandra mi racconta la storia. La causa era fra due contadini: uno aveva promesso all’altro alcune cose da dare. “Il nostro assistito era colui che doveva dare, l’altro, quello che doveva avere, non ricordava bene cosa dovesse avere, per certo erano un maiale, delle galline e un inginocchiatoio”. Faccio la domanda, quasi certa di quale sarà la risposta, su chi abbia vinto la causa: “L’abbiamo vinta noi e il nostro assistito si è tenuto il maiale, vivo eh?! Le galline e l’inginocchiatoio!”.
Faccio un balzo e torno ai giorni nostri, chiedendole quale sia il suo stato d’animo, adesso, quando discute una causa. “Adesso sono un caterpillar, difficilmente ho paura di una causa, soprattutto perché, dove non arrivo con le mie conoscenze, mi metto sotto con lo studio. Quando invece si tratta di un ramo che non è il mio, indirizzo il cliente verso un altro avvocato che tratta questa materia”.
Io, che mi credevo ferratissima, grazie ai film, sull’abbigliamento degli avvocati, rimango un po’ delusa quando mi dice che lei non indossa la toga, quella è solo per i penalisti. Rammenta però molto bene un giudice, adesso in pensione, che era “formalissimo” e che teneva molto all’abbigliamento, tanto da chiedere una volta a un collega se dopo l’udienza lo aspettasse una partita di tennis, di averne provato soggezione. Fortunatamente essendosi formata a Firenze, perché ogni foro ha i propri costumi, ha sempre avuto un abbigliamento consono. Non so se abbia percepito il mio dispiacere nel non poterla immaginare in toga e mi regala un’immagine: “Il giuramento lo fai con la toga: io non l’avevo e me la prestò un altro, che aveva già giurato. Arrivai davanti al presidente della corte di appello, lessi la formula scritta su un foglio che mi avevano dato, giurai e via… passando la toga a un altro”.
Come ogni volta, avrei ancora tante domande, ma il tempo è tiranno. Le chiedo se ha avuto scontri con suo padre. Risponde affermativamente, ma lo aveva messo in conto, anche perché era abbastanza rigido e con lei, in quanto figlia, lo era di più. Lei, del resto, da figlia si sentiva libera di controbattere, cosa che non avrebbe mai fatto con un altro avvocato: “Con il tempo i rapporti, non solo sono migliorati, ma è nata una grande complicità oltre che collaborazione”. Quando mi dice che è stato un ottimo maestro, le si incrina leggermente la voce, ma riprende subito fermezza e mi spiega che ha insegnato a lei e ad altri praticanti l’etica fra colleghi.
Occupandosi molto di separazioni e divorzi, ed essendo donna, le chiedo chi siano prevalentemente i suoi clienti: “In questo campo sono perlopiù donne, ma, ultimamente, sto difendendo anche molti uomini, e ti dirò che quest’ultimi si fidano e si affidano di più rispetto alle donne, forse perché sono meno ansiosi”.
E per quanto riguarda i suoi figli le chiedo se le piacerebbe ricalcassero le orme del nonno e della mamma. “Premetto che questo è un mestiere che senza passione non si può fare e, comunque, la scelta deve essere loro, io sono qui”.