Ero a Zanzibar da due giorni e, pur godendomi le acque tiepide vicine alla barriera corallina, continuai la mia indagine. Sulla spiaggia incontrai alcuni beach boys che mi dissero di rivolgermi a degli stregoni locali che, a quanto dicevano,non solo usavano le loro pratiche magiche per guarire le persone, ma fornivano anche aiuto, “they used to help” furono le testuali parole, le famiglie e i bambini in difficoltà. Mi diressi alle capanne degli stregoni e la prima cosa che notai fu una fila di mamme e bambini che, sotto il sole equatoriale, aspettavano, senza lamentele, il loro turno per andare a parlare con quelli che, loro stesse, definivano i “boss”. Comincia a parlare con le giovani mamme e scoprii che provenivano da zone rurali della Tanzania, dove la povertà affamava uomini ed animali, perciò esse avevano intrapreso, a loro dire, “il viaggio delle speranza”. Quelle madri avevano portato con loro piccoli doni o somme di denaro per gli stregoni, perché costoro, in base alla qualità della ricompensa, offrissero ai figli la possibilità di lavorare nei villaggi turistici o nelle case dei ricchi possidenti locali e stranieri.
Non ebbi bisogno di parlare con quei malfattori per capire che quello era un vero e proprio mercato di bambini, che, spesso spinti anche dalle loro stesse famiglie, sottostavano ad ogni tipo di sopruso, al fine di inviare, ogni fine settimana, pochi denari a casa. Questa tipologia di impiego dei minori suscitò in me maggiore sdegno e preoccupazione rispetto ad altri lavori, che avevo visto svolgere da ragazzi in Africa, perché si trattava di un fenomeno che aveva un’evidente dualità di facciata. Spesso, infatti, lo schiavismo minorile viene presentato come un’opportunità per le famiglie più indigenti, originarie, nella maggior parte, delle aree remote del paese. Molti bambini vengono incoraggiati dai propri genitori ad andare a lavorare presso ricche famiglie o in strutture turistiche, attratti anche dalla promessa che i figli guadagneranno abbastanza per aiutare la famiglia e che avranno pure la possibilità di studiare.
Una domenica, durante il mio soggiorno a Zanzibar, mi recai ad assistere alla Messa e, alla fine della celebrazione, mi intrattenni a parlare con il parroco, Father Joseph, che mi illuminò, ulteriormente, sul triste fenomeno. Padre Joseph mi disse che, purtroppo, a Zanzibar, era presente soltanto un centro, o meglio rifugio, per i bambini che scappano dalla situazione di schiavitù in cui, all’improvviso, si trovano a vivere. Il prete continuò, sostenendo che uno degli aspetti inquietanti di questa realtà era che i minori, spesso, quando arrivano nel luogo protetto e raccontano la loro storia, non solo denunciavano di essere stati costretti a lavorare in condizioni disumane, di essere stati picchiati e maltratti ma, soprattutto le bambine, rivelavano di essere state, in più occasioni, vittime di abusi sessuali. Padre Joseph mostrò molta tristezza per questa situazione, tanto da non voler andare a pranzo: “Quando racconto queste esperienze a qualcuno – mi disse – perdo anche la voglia di mettermi a tavola e mangiare, perché quest’isola conosciuta come il paradiso dei turisti si è trasformata in un inferno di lavoro minorile”.