Matano era un giovane autista di “piki piki”, termine swaili che indica un motociclo che fa servizio taxi. Lo conobbi alcuni anni fa, quando mi trasportò dallo stage del bus, a Malindi, sino all’abitazione di alcuni amici italiani che mi avevano invitato a cena. Matano mi disse che stava cercando di risparmiare denaro per comprarsi il biglietto ed andare a lavorare a Zanzibar, dove gli avevano detto che era più semplice trovare un impiego.
Immediatamente, drizzai le antenne, poiché avevo un paio di ragazzi del mio orfanotrofio che avevano, ormai, superato i 18 anni, e io stato tentando di cercar loro anche una piccola occupazione. Decisi, quindi, di andare per un fine settimana a Zanzibar, cogliendo così l’utile, nel trarre informazioni, ed il dilettevole, nel tuffarmi sul reef, cioè la barriera corallina, per qualche rilassante momento di snorkling.
Varcai il confine a sud del Kenya, qualche settimana dopo, e arrivai a Dar es Salam, la capitale della Tanzania e, da lì, mi imbarcai per Unguja, l’isola principale dell’arcipelago, nota come Zanzibar. L’sola mi accolse, come al solito, con i suoi panorami mozzafiato, le sue viuzze tortuose, piene di minareti con portali scolpiti ed edifici del XIX secolo, che, spesso, si affacciano sulle spiagge, piene di turisti, fondendo un paesaggio coloniale arabo, con uno più moderno ed occidentalizzato.
Passeggiai a lungo sulla spiaggia, dove mi avvicinarono molti “beach boys”, i quali, di solito, approcciano i turisti per vendere loro, a discutibili prezzi, chincaglierie di vario genere. Così, mentre negoziavo su prezzi di collanine, braccialetti e creme varie, raccoglievo informazioni su chi e come offrisse lavoro ai giovani, che cercavano un’occupazione nel settore turistico.
Un ragazzo, dietro mia richiesta, mi presentò Fahasal, il quale si definì un brocker, ma, in realtà, come scoprii in seguito, svolgeva tutt’altre funzioni. Quando gli parlai dei miei ragazzi dell’orfanotrofio di Mombasa, in cerca di lavoro, mi chiese, immediatamente, la loro età. Al momento non ci feci caso, ma, col procedere della conversazione, mi fece sapere che, se si offre lavoro regolare a ragazzi maggiorenni, in Tanzania, si pagano molte tasse, per cui, senza tante mezze misure, mi disse di prediligere, per i suoi clienti, lavoro nero e minorile. In parole povere, questo signore era uno dei tanti mediatori di lavoro a basso costo, che molti “muzungu” (uomini bianchi) assoldano, offrendo loro una percentuale, che varia tra il cinque e il dieci per cento del misero salario, che il malcapitato minore poteva ricevere.
Rimasi scioccato dal fatto che, nell’angolo dell’est Africa tra i più rinomati al mondo, fosse possibile che tantissimi bambini vivessero come schiavi, nelle case dei ricchi di Zanzibar, perciò cercai di approfondire qualcosa che, fino ad allora, non avevo ancora scoperto.