Si parla molto, in queste ultime settimane, degli abusi subiti dalle donne iraniane sotto il regime teocratico di Ali Khamenei. Agli occhi di noi occidentali sembra impossibile ma accade che le donne possano, in alcuni paesi islamici, possano svolgere mansioni e lavori, a patto che coprano i propri capelli con il velo islamico, l’hijab, non necessariamente con lo chador e che nascondano le braccia e gambe in abiti non troppo succinti.
Tutto ciò assomiglia molto a quanto ebbi modo di vedere in Somalia, paese in cui i diritti delle donne rimangono, fortemente, dominati dalle strutture sociali interne ai diversi clan presenti nel paese. Le donne somale godevano di alcuni diritti ottenuti in passato, che, oggi, sono stati aboliti o pesantemente ridotti secondo la legge islamica.
Il rapporto delle Nazioni Unite del 2021 riferisce che esiste uno stretto collegamento tra la violenza sessuale e le condizioni di insicurezza prevalenti in Somalia, che sono determinate da tensioni politiche, da scontri intercomunitari e da un’ondata di attacchi del gruppo militante estremista al-Shabaab, l’equivalente africano di Al Qaida, che si è intensificata durante la pandemia di covid-19. I casi di violenza sessuale attribuiti ad al-Shabaab sono raddoppiati, secondo quanto rilevato dal rapporto, che descrive come il gruppo islamista continui a usare la violenza sessuale e il matrimonio forzato, per dominare le aree sotto il suo controllo.
Anche i rappresentanti special delle missioni ONU a Mogadiscio, hanno esortato il governo ad adottare misure concrete, per prevenire la violenza sessuale contro donne e bambini, attraverso un nuovo piano d’azione nazionale. Spero vivamente che ciò possa rafforzare la politica di “tolleranza zero” nel settore della sicurezza e che contribuisca a consolidare la capacità istituzionale di prevenire e rispondere efficacemente alla violenza sessuale legata ai conflitti.
A mio avviso, però, per reperire soluzioni efficaci, non basta essere ottimisti sull’applicazione dei dettami ONU: si deve, piuttosto, essere consapevoli che esiste ancora una grossa fetta di tribù che segue pedissequamente Al Shabaab, applicando la legge coranica, senza trovare forti opposizioni nemmeno là dove ancora si pratica la mutilazione genitale femminile. Non ci si può, quindi, solo limitare ad emanare proclami ed esortare il governo somalo. Gli “UN operators”, che vivono quasi quotidianamente “sul campo”, dovranno, al più presto, varare una campagna di educazione delle ragazze che comprenda una parte formativa ed una che le avvii ad un percorso culturale.
Fortunatamente, molte famiglie somale, soprattutto nelle città, cominciano a rendersi conto che è fondamentale mandare le figlie a scuola, e sono fiere quando le vedono raggiungere i livelli di formazione più alti. L’associazione ISTVS (training on tissue culture technology and technical veterinary school in Somaliland) è una delle istituzioni che lavorano per migliorare l’educazione delle ragazze nell’ecosistema somalo, ed in quanto tale, continua a registrare un aumento nelle iscrizioni ai vari corsi da parte delle donne.
Tutto ciò è già un inizio, non ancora sufficiente ed efficace, ma un chiaro segno di inversione di rotta e di rifiuto dei dettami più ottusi e fondamentalisti dell’islam. Ma io spero, soprattutto, che sia una prima forma di emancipazione culturale e sociale per le giovani donne somale.