• Ven. Nov 22nd, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Dove andiamo questa settimana: Narita, Giappone

Coordinate: 35°46′36″N 140°19′6″E

Distanza da Firenze: 9.777 km

Questa è una piccola, grande storia di resistenza. È una lotta pacifica, quella di Takao Shito, fatta di ricorsi e ostinazione personale, ma le sue radici sono lontane e presentano tratti di una violenza inusuale a queste latitudini, visto che stiamo parlando del Giappone, un paese in cui il rispetto verso l’autorità è quasi sacrale.

Tutto ha inizio nel ventennio post bellico. La ricostruzione avanza a ritmi serrati e vengono gettate le basi di una rinascita economica prodigiosa. In questo contesto, la questione dei collegamenti con il resto del mondo appare in tutta la sua importanza strategica. Ed è altrettanto chiaro che potenziare l’aeroporto di Tokyo, Haneda, non è sufficiente. Ci vuole un altro scalo. La scelta ricade sull’altopiano di Shimōsa, nella prefettura di Chiba, ad est della capitale. Gran parte di quei terreni da pascolo sono di proprietà della famiglia imperiale, che, quindi, non pone veti al loro sfruttamento per la costruzione del nuovo grande aeroporto, ma molte centinaia di ettari appartengono, da generazioni, alla comunità agricola di Sanrizuka. È il 1966. I contadini vengono messi difronte ad una scelta già fatta, partono i lavori e scoppia la protesta. Dapprima, essa ha i connotati tipici dei movimenti di quartiere, con appelli, volantini e riunioni con le autorità; ma quando è chiaro che questo non porterà a niente e che i lavori non si fermeranno, i contadini cambiano strategia. Dopo alcune iniziative di sabotaggio molto plateali – incatenamenti umani agli alberi, costruzioni di fossati e tunnel, fino ad arrivare al lancio di letami sugli operai con grandi catapulte – l’ala più radicale della sinistra politica e degli studenti si unisce al movimento e la cosa degenera nella violenza vera: nei numerosi scontri con la polizia, vengono utilizzati idranti e ruspe, bombe molotov e lance acuminate, come in una battaglia tribale, e si registrano morti e feriti da entrambe le parti. Alla fine l’aeroporto di Narita, che prende il nome dalla cittadina che sorge nelle sue vicinanze, viene inaugurato il 20 maggio del 1978, molto in ritardo rispetto a quanto previsto, ma con una superficie ridotta di un terzo e per questo dotato di un’unica pista. Questo fu il risultato della cosiddetta “rivolta di Sanrizuka”, una protesta fra le più cruente della storia del Giappone moderno.

Da allora le cose sono un po’ cambiate. La struttura si è ingrandita fino a raggiungere gli attuali 1198 ettari, con due piste e un movimento di passeggeri, che nel 2018 ha raggiunto i 33 milioni di passeggeri. Negli anni, progressivamente, tutti i contadini hanno ceduto alla Naa, la società proprietaria e gestore dello scalo) i propri terreni, in cambio di tanti soldi. Tutti tranne uno. Si chiama Takao Shito, ha 71 anni e ha ereditato il terreno da suo padre Toshio, che prese parte agli scontri di Sanrizuka, cinquant’anni prima. La Naa è arrivata ad offrirgli la bellezza di un milione e 370 mila euro per andarsene. Ma lui ha detto no, grazie. La sua fattoria e i suoi terreni sono ancora lì, nel bel mezzo dell’aeroporto: una nota ribelle, una sorta di sfregio, come un graffito di protesta colorato di verde, su un enorme muro grigio. Fino a qualche anno fa, casa sua era direttamente collegata ai campi ed era più facile raggiungerli, ma dal 2010 c’è una lingua di cemento usata come diramazione della seconda pista, e, per andare al lavoro, adesso, ci mette il quadruplo del tempo. Ma non importa, lui continuerà ad alzarsi all’alba, tutti i giorni, per raccogliere il frutto del suo lavoro e di quello di suo padre prima di lui, finché sarà in grado di farlo. Non smetterà di piantare le sue verdure, anche se risulta difficile immaginare come sia possibile convivere con il rumore assordante degli aerei, che sconquassano l’aria e che passano a poche decine di metri dalla sua testa, tutto il giorno e per tutti i giorni dell’anno.

Ma il rispetto della tradizione e la volontà di non piegarsi alla logica del denaro è solo un aspetto del suo ostinato rifiuto di lasciare quel fazzoletto di terra. Takao non è proprietario di quell’appezzamento. La sua famiglia lo ha avuto, sempre e solo, in affitto. Nel 1988 il lotto viene venduto alla Naa senza informare gli Shito. Nel 1999 il padre muore e, come tradizione, lascia la fattoria al primo genito Takao, che comincia ad occuparsene, profondendo nella sua cura ogni energia e risorsa possibile, mentre intorno a quel piccolo, insignificante ettaro e mezzo di terreno agricolo, l’aeroporto continua a crescere, come un enorme mostro mitologico pronto a fagocitarlo tra le sue fauci di acciaio e cemento, non appena se ne presenti l’occasione. Dopo quattro anni, nel 2003, gli avvocati si presentano con il documento di vendita, certi che questo avrebbe convinto Takao a cedere. Ma si sbagliano di grosso. Takao dà inizio ad una lunga battaglia legale, che va avanti ancora oggi. Nel 2018, il tribunale ha approvato lo sfratto, ma Takao non si è dato per vinto, presentando ricorsi su ricorsi che, di fatto, hanno bloccato l’esecuzione forzosa dell’ingiunzione. Per questo, lui continua, tranquillamente, a raccogliere le sue patate satoimo, mentre intorno a lui gli aerei atterrano e decollano. Takao parla con orgoglio della montagna di soldi che ha rifiutato, ma il vero motore della sua ribellione è la rabbia contro la Naa, colpevole di aver trattato lui e gli altri come fossero “parassiti”, e non come persone degne di rispetto, a cui si sta chiedendo di rinunciare ad una cosa che è loro da generazioni.

Per adesso, quindi, la fattoria resta dov’è. E questo successo dà forza e convinzione a Takao nel continuare la sua battaglia. In Giappone, la sua storia gode di una certa notorietà. Persino Wikipedia – alla voce “aeroporto di Narita” – fa un breve cenno all’esistenza di una fattoria che sorge in mezzo alle piste. Inoltre, Takao non è più solo nella sua protesta. La capanna degli attrezzi, che sorge sul terreno, è tappezzata di biglietti di ammiratori e sostenitori della causa, o di chi la prende a pretesto per protestare contro tutto quello, per cui è possibile protestare e anche oltre: la cementificazione, il nucleare, l’inquinamento, gli Stati Uniti, il complotto sionista e così via. E fra queste quattro lamiere, si tengono riunioni ed incontri per organizzare eventi o, semplicemente, per scambiarsi opinioni; e Takao adesso può contare anche su un giovanotto che fa il corrispondente per un sito della sinistra radicale e che scrive regolarmente della fattoria.

Dunque, come dicevamo, questa è una piccola, grande storia di resistenza. A questo punto non importa quanto a lungo durerà. Ci piace pensare che vi siano un’infinità di storie come quella di Takao, anche se la stragrande maggioranza di esse non verranno mai raccontate, e che siano queste storie a rendere il mondo un posto migliore.

Tutti possiamo opporre un qualche tipo di resistenza, prima o poi: che la causa sia piccola o grande è solo un dettaglio.

Fonte: Internazionale