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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Il triste caso di Mowdrick (seconda e ultima parte)

DiStefano Guidaci

Ott 17, 2022

Dopo qualche settimana, portai tutti i documenti all’ambasciata italiana in Kenya, dove mi confermarono che, non appena l’ospedale di Roma avesse inviato comunicazione di avere un posto libero, nel giro di due o tre giorni, il visto sarebbe stato pronto. Anche la onlus di Genova, “L’albero della vita”, aveva assicurato che il giorno stesso in cui la documentazione fosse stata pronta, avrebbero comprato il biglietto per Mowdrick e per la sua mamma. Purtroppo, in quei giorni, il Covid dilagava e, in Italia, morivano centinaia di persone al giorno. Gli ospedali erano tutti pieni ed i medici dovevano sottoporsi a turni massacranti. Intanto, dall’altra parte del Mediterraneo, Mowdrick continuava il suo calvario quasi quotidiano fatto di emergenze e corse in ospedale al fine di essere riossigenato e ristabilire un’accettabile saturazione dopo un’ipossia, condizione di carenza dell’ossigeno a livello dei tessuti dell’organismo. Per il piccolo, in particolare, si trattava di un fenomeno acuto, che compariva rapidamente, fino a diventare cronico e riguardava l’intero corpo (ipossia generalizzata), per cui il bambino diveniva cianotico. Ricordo con dolore che ho assistito anch’io, almeno due volte, al verificarsi di tali condizioni, perciò non mi dilungherò troppo in dettagli: vorrei solo sottolineare come sia disumano, soprattutto per un piccolo in tenera età, controllare l’angoscia della carenza di respiro, che lo fa iniziare a piangere, alternando lacrime a rantoli di soffocamento. Risulta chiaro che solo la prontezza e la velocità della diagnosi, unite ad un altrettanto immediato ed accurato intervento chirurgico, possono salvare un bambino, che accusi un tale quadro clinico. Sfortunatamente nulla di tutto ciò è accaduto per Mowdrick: si è accanito sulla sua sfortunata, fragile e breve esistenza, un insieme di circostanze negative che hanno incluso sia la negligenza di alcuni nosocomi e medici kenyoti, sia l’avverso momento pandemico che, nel momento del suo possibile viaggio per la salvezza, ha fatto sì che, in Italia, gli ospedali fossero sovraffollati ed i pazienti venissero curati nei corridoi. Un assolato pomeriggio dell’ottobre 2020, mentre ero sulla spiaggia, dove avevo portato alcuni bimbi dell’orfanotrofio, mi giunse la telefonata di Ann, la mamma di Mowdrick, la quale mi annunciava che il bambino era divenuto (così disse lei) “un angioletto di Gesù”.

Le sfortunate circostanze non finirono lì. Nel villaggio in cui viveva la famiglia di Mowdrick, avevano imposto ad Ann di seppellire il bimbo la mattina successiva, per questo motivo, quando arrivai al villaggio, verso le 11, lui era già stato sepolto. Fu allora che scoprii che non era stato messo in una bara e neppure in un cimitero perché erano troppo poveri. Ann aveva fatto scavare una fossa nel campo di un vicino e lo aveva fatto adagiare lì, così com’era. Ancor prima di arrivare al luogo di quella improvvisata sepoltura, il proprietario del campo, un mussulmano di pochi scrupoli, mi chiese del denaro per aver concesso uno spazio alla mia amica. Lo accontentai e andai a visitare il luogo in cui il bimbo era stato sepolto. Non si distingueva nemmeno il punto in cui il corpicino era stato deposto a causa del caos di rocce e sassi che si vedevano intorno. Sollo alla fine mi accorsi della terra mossa in un angolo ed Ann mi disse che il suo bimbo era lì. Chiamai un muratore locale per far circoscrivere la zona con dei mattoni, del cemento ed una croce, ma giunta la notizia all’orecchio del proprietario, venne da me ed affermò con durezza: “Vada per sassi e per cemento, ma sul mio campo non metti nessuna croce!”. Compresi che in quella zona non mi sarebbe convenuto discutere o ribattere, quindi pagai l’operaio ed acconsentii all’accordo. Quando l’arrogante mussulmano si allontanò, insieme al muratore scavai un perimetro nel quale vennero messi i mattoni uniti dal cemento. Ma nel punto in cui il terreno risultava più friabile, scavammo più in profondità, mentre la mamma e la zia del bimbo costruivano una piccola croce di frasche, che depositammo sottoterra, nascondendola alla vista dei passanti. Sono passato di lì pochi mesi or sono, il terreno è ancora aspro ed incolto, ma io so che, in un angolo di questo, brilla un’anima innocente con accanto a sé una croce di frasche.

Prima parte