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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Quando la pittura diventa corpo: Clara Burgio danzatrice di Butoh

DiSilvia Ammavuta

Ott 5, 2022

Clara Burgio, danzatrice di Butoh, arriva al nostro appuntamento con un sorriso smagliante e un passo deciso e leggiadro al contempo. Si scusa per il, in realtà piccolissimo, ritardo dovuto a un contrattempo, affermando che, per lei, la puntualità è importante. Si siede, accavalla una gamba, tira indietro un ciuffo sbarazzino, inclina una spalla e la testa e si protende nella mia direzione. Capto un messaggio potente che posso riassumere in una sola parola: energia. Attingo all’energia che il suo corpo, la sua voce e i suoi stessi occhi trasmettono, mentre percorriamo le tappe del suo mestiere.

Muove i primi passi di danza classica da bambina, insieme alla passione per il disegno, li coltiva entrambi: frequenta una scuola di danza, formandosi come ballerina classica, e consegue la laurea in pittura all’Accademia di belle Arti di Palermo. Nel cammino del suo mestiere, entrambe le discipline artistiche si miscelano l’un con l’altra, fino, quasi, a perderne i contorni. Creano corrispondenze fra pittura e fisicità in cui le immagini interiori si concretizzano nelle pennellate sulla tela, prendendo, poi, forma e azione tramite il corpo, in un fluire di materia-energia nello spazio. È proprio sullo spazio che Clara attua una ulteriore corrispondenza: “Non puoi fare questo tipo di danza, se non sei sincera con te stessa, se vuoi trasformare uno spazio. Esempio: io non rappresento il fiore, IO SONO IL FIORE. Per fare questo è necessario cambiare il punto di vista, e senza il mio io. È un modo di essere: anime che vanno al di là dello spazio e del tempo. Ascolto un altro tempo, un altro mondo. Tutto ciò mi dà molte opportunità”.

Incontra il Butoh a 19 anni, a Palermo. Casualmente, assiste a una performance. È un vero e proprio colpo di fulmine per quei movimenti, per quel linguaggio del corpo. Al termine dello spettacolo parla con la danzatrice e, il giorno appresso, è proprio con lei che inizia a prendere lezioni. Nel 2004 consegue a Palermo il diploma di danzatrice alla scuola internazionale di Butoh, riconosciuta in Giappone.

Alla mia domanda cosa sia questa danza risponde che sarebbe più semplice dire cosa non è, ma a dispetto di quanto ha appena affermato si prodiga nel mostrarmi quel mondo: “Nel Butoh non ci sono passi prestabiliti. Ha avuto origine nel nord del Giappone nel 1954. Il Butoh non è solo oriente, è un incontro con l’occidente, è una miscela, che va al di là dei confini. Gli esseri umani danzano dalla loro comparsa sulla terra, ognuno porta con sé le proprie origini e, come tutte le arti, è collegato alla ritualità”.  E negli ideogrammi questa ritualità emerge. Bu corrisponde alla parte superiore del corpo, è collegata a un mondo luminoso, alla   pace, all’armonia, ad Apollo. Toh significa percuotere in maniera disarmonica la terra: è collegata a Dioniso, al buio, all’oscurità, alla parte oscura. Lo definisce “violento”, in quanto tira fuori ciò che normalmente non vogliamo vedere di noi. Emergono quelle emozioni giudicate dal contesto sociale come l’odio e la rabbia: le parti oscure. “Non possiamo essere solo Apollinei!”, esclama con passionalità sicula. È proprio sulla scia di questo sentimento, che le chiedo come concilia questo ardore con una disciplina che ha radici in un paese, in cui vigono regole, puntualità, organizzazione e rigidità.

Risponde con una sola parola: libertà. Ciò che esterna con fervore subito dopo, è illuminante: la repressione è ciò che prova, quando non può o non riesce a organizzarsi. Per lei, il teatro e la danza sono discipline collettive, la puntualità è basilare per il rispetto reciproco e il senso del dovere. Prosegue dicendo che tutto ciò, che sembra sacrificio sul momento, non lo considera tale, perché è fatto con amore e con passione anche se, ripensandoci dopo, talvolta può esserlo.

Tocco volutamente una nota dolente: come per la maggior parte degli artisti il fattore economico è uno scoglio enorme da affrontare: “Penso di dover fare un rito per pulire le antiche credenze popolari italiane, che ci portiamo dietro, in cui la convinzione è che l’arte non sia un mestiere, e che non debba essere pagato. Posso danzare per solidarietà, senza retribuzione, ma è scorretto non pagare gli artisti per il mestiere che fanno, per prestazioni professionali, sfruttatati per la loro passione. Per fortuna, più no ho imparato a dire, più inizio a essere retribuita. Chiamare mestiere questo lavoro ed essere pagati è giusto. Il fatto che ti piaccia, non deve avere come pegno il non trovare riscontro economico“.

Ciò che percepisco in Clara è il suo forte desiderio di coltivare l’aspetto spirituale, fisico, sociale. C’è un filo conduttore che li unisce tutti e tre e me lo conferma, quando mi racconta che quest’anno insegna, in sostegno, grafica e pittura a ragazzi con disabilità alla scuola Sassetti Peruzzi di Firenze, strettamente collegata all’aspetto socio sanitario.

Si definisce una persona semplice, quando parliamo di amicizia e non posso che essere d’accordo che le venga naturale incontrare e condividere con gli altri. Mi viene spontaneo chiederle cosa sia per lei l’anima, la risposta è l’essenza della sua energia: “In questo periodo, sto ascoltando molto la mia anima, la lascio danzare. C’è un tempo indefinibile nella giornata, che non so quantificare, ultimamente è affiorata un’anima spiazzata, che non avevo ancora visto, l’ho riconosciuta anche se nella dimensione del quotidiano non mi vedo una persona spiazzata. In questo “non tempo”, la danza che ha fatto quest’anima mi ha commosso. È frammentata. All’inizio, mi sembrava di non provare sentimenti, poi sono torna indietro per guardarla e ho trovato un mondo enorme. È un’anima fragile, ancora non ben identificata, però c’è, STA! Non è andata via dal tempo passato, è là, forse deve ancora scegliere, devo aspettare che me lo comunichi. Non capisco i suoi stati d’animo. Il mio è di stupore“.

© Foto di Claudio Bartoli