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Diari Toscani

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Una vita nella psicologia: Anna Lalli

DiSelenia Erye

Set 29, 2022

Inseguire i propri sogni è un atto di grande coraggio, chi possiede questa dote deve ritenersi realmente fortunato, perché tutto ciò, consente di essere libero, nel senso più vero del termine. Anna Lalli, psicologa e psicoterapeuta carrarese, è una donna di grande coraggio e, di conseguenza, estremamente libera. Sempre all’avanguardia nel campo della psicologia, è conosciuta in Toscana, per la sua capacità di avere una mente sempre attiva, in grado di cogliere negli esseri umani quell’oltre che, ai più, resta sconosciuto. Anna Lalli è profondamente legata ai valori di serietà e raffinatezza, ai quali è stata educata dalla sua famiglia. Nella sua passione per l’arte, intesa come possibilità di evolversi verso il futuro, è inarrestabile. Sguardo attento e curioso, elegante e decisa nei modi, colpisce e trasmette entusiasmo a chi la osserva. Ha compreso, sin dalla giovinezza, quali obiettivi voleva raggiungere, consapevole della propria interiorità e generosa nel donare al prossimo, non si è fermata fin quando non li ha raggiunti senza mai darsi per vinta.

Come è nata la passione per la psicologia?

Sin dall’adolescenza decisi che volevo diventare una psicologa. Tutte le decisioni importanti che riguardano l’essere umano hanno due componenti: una razionale ed una inconscia. La parte razionale mi ha portato ad avere interesse verso la scoperta della persona in maniera più attiva, a studiare e scoprire le parti nascoste di ognuno di noi. Sono sempre stata molto intuitiva e molto attenta. Capivo che nelle persone e nelle loro parole c’era “un oltre”, ed era proprio quello, che mi incuriosiva. Durante l’adolescenza lessi un libro che, per me, fu rivelatore e che ha segnato la mia vita: “Introduzione alla psicanalisi” di Sigmund Freud. È stato un momento determinante, nel quale ho capito che anch’io avrei voluto fare quel mestiere. Il libro mi aiutò a farmi sentire meno sola e a sopportare le inquietudini tipiche di quell’età e mi fece pensare di aver trovato, finalmente, qualcuno che mi capisse. Volevo fare la psicologa perché in fondo speravo anch’io di essere capita in quel modo.

Quale è stato il suo percorso di studi?

Agli inizi degli anni ‘70 venne aperta, in Italia, la facoltà di psicologia e le prime sedi furono Roma e Padova. Desideravo immensamente poter frequentare quel corso di studi e provai a chiedere ai miei di lasciarmi andare a studiare lontano da casa, ma mia madre non acconsentì e mi spinse a iscrivermi a filosofia. Dopo un anno di filosofia, capii di voler fare studi più approfonditi e, alla fine convinsi mia madre a lasciarmi trasferire a Padova per studiare psicologia.

Come sono stati quegli anni per lei, cosa la colpiva di più nella realtà della società in cui viveva?

Erano gli anni della rivoluzione culturale e politica, vi era una libertà auspicabile, un fermento incredibile che inebriava. Erano gli anni della libertà sessuale: uscì la pillola, che per noi donne fu lo spartiacque dal binomio sesso/gravidanza. C’era stata una grande lotta per poter avere una voce. Io stessa presi la pillola e questa scelta mi permise di vivere una sessualità appagante e felice, mi sembrava di avere la possibilità di poter essere la protagonista di cambiamento reale nella società. La facoltà che frequentavo rappresentava quel cambiamento. Quello che mi colpiva di più era quel fermento: credere in quello che facevamo, con grande passione e forza emotiva. Vivevamo immersi in una grande cultura, pieni di forza intellettuale ed emotiva. Il teatro e il cineforum erano il nostro pane quotidiano. A mio figlio dico sempre che noi adolescenti, all’epoca, crescemmo in una società dove era di moda essere intelligenti. Era la società stessa che sosteneva il pensiero e, proprio per questo, vi era il contagio dello sviluppo del pensiero. Tutti noi giovani speravamo in un futuro migliore. Avevamo raggiunto conquiste come il divorzio, l’aborto. Il consultorio, era il punto centrale di grande partecipazione. Ci si laureava in quattro anni di università. Io vinsi un concorso, con numeri di partecipazione assai diversi da quelli odierni, e cominciai a lavorare al consultorio di Massa che era il punto centrale del servizio, con grande partecipazione di professionisti. La passione di quell’epoca non potrò mai dimenticarla.

La sua visione avveniristica della vita le ha permesso di arrivare, spesso, in anticipo sui tempi. Quali erano i suoi progetti, all’inizio della sua carriera?

Ho sempre avuto la capacità di capire i bisogni della individui, e, soprattutto, la forza e la convinzione necessarie per dare risposte reali. Nei primi anni di lavoro al consultorio di Massa, cominciai a fare terapia di gruppo, una tecnica molto all’avanguardia, nella stanza che veniva impiegata per la preparazione al parto, che era dotata di grandi cuscini e quindi molto accogliente. Ricordo che venivo guardata con curiosità per le novità che proponevo. In quel periodo stavo approfondendo la formazione in analisi transazionale, un’analisi concepita per rispondere ai bisogni di più persone. Mi occupavo di adulti e collaboravo spesso con gli psichiatri: ero tra le poche psicologhe accettate dai colleghi della psichiatria. Esisteva, all’epoca, una sorta di sudditanza della psicologia verso la psichiatria, che, in parte perdura ancora adesso. Anche oggi si crede che la risposta alla sofferenza psichica profonda sia quella farmacologica, e che la risposta psicoterapica/psicologica sia sempre appoggiata al farmaco e non viceversa. Sono stata responsabile del gruppo degli psicologi quando abbiamo condotto la dura battaglia per ottenere l’apertura, nella provincia di Massa Carrara, dell’unità operativa di psicologia, che è stata l’ultima costituita in Toscana.

Come proseguì la sua carriera?

Alla fine degli anni ‘90 venni chiamata da un referente che mi propose di occuparmi di un ragazzo ricoverato in ospedale per un grave incidente. L’esperienza fu molto formativa e mi fece comprendere che c’erano bisogni psicologici che scaturivano da una sofferenza fisica e non da soli conflitti interiori, dovuti a dinamiche non risolte dalla propria vita, ma causati proprio dalla malattia. Fu una rivelazione: capii che vi era un grande vuoto nell’azienda ospedaliera e anche nella storia della psicologia ed era quello di prendersi cura dei pazienti organici.

Da quel momento che mutamento è avvenuto in lei e nei suoi bisogni?

Cominciò dentro di me a maturare l’idea di poter strutturare in maniera più organica un’offerta psicologica per questo tipo di pazienti. La realtà, come patologia organica più rappresentativa e che aveva più bisogno di un aiuto psicologico, non solo per il paziente ma anche per i familiari o per i medici stessi, era quella oncologica. Preso atto di questo, mi confrontai con il dottor Spinelli, che all’epoca era il primario di oncologia, che fu entusiasta della possibilità di utilizzare anche il servizio psicologico. Trovai consensi ed entusiasmo anche in altri medici e cominciai a lavorare con i pazienti oncologici. In breve le ore aumentarono e io estesi il servizio anche ad altri ambiti. Fu l’embrione di quella che poi sarebbe stata la psicologia ospedaliera. La ASL di Massa Carrara fu la prima nel 2000, a fornire un Servizio di “Psiconcologia”, e da lì piano piano si arrivò anche a strutturare la mia Psicologia Ospedaliera. Con l’ingresso dello psicologo in ospedale si è portata un’attenzione al paziente, alla famiglia e al tutto il personale. Abbiamo fatto corsi per molti anni. Nella presa in cura degli operatori ci accorgemmo che molte questioni di disagio si riferivano alle relazioni fra loro e con l’azienda e si pensò di mettere in essere un ufficio che si occupasse di questioni legate alle problematiche degli operatori al lavoro, URpe (ufficio relazioni con il personale) del quale ebbi la direzione. Nacquero in quel periodo progetti per il Benessere lavorativo come quello del teatro, della mindfulness e l’azienda accettò la proposta sulla formazione in “Psiconcologia” di un gruppo multidisciplinare, per dare a tutti strumenti di una formazione uniforme. Per due anni ci siamo formati a Roma e Milano. Il lavoro di squadra è molto importante.

Quanto c’è ancora in lei di quella ragazza che buttava sempre il cuore oltre l’ostacolo?

Io, non so se buttavo il cuore oltre l’ostacolo, sicuramente ho una tradizione forte, le mie radici sono salde. Appartengo ad una famiglia di “rivoluzionari” da parte paterna: nonno, padre e zia partigiani. Mia zia si arruolò giovanissima nel corpo armato dei partigiani, non come staffetta, ma come militante. Le fu data una medaglia d’argento al valor militare e la laurea ad honorem in ingegneria dopo la sua morte. Era uno spirito libero. Anch’io penso di esserlo. Anche se ho lavorato tutta la vita dentro l’istituzione, ho mantenuto lo spirito critico, ho sempre condiviso l’aspetto delle istituzioni che ritenevo più importante e cioè l’offerta da parte dello stato di servizi dovuti al cittadino.

Nel suo lavoro con i malati oncologici ha dovuto spesso affrontare il tema della morte…

Avevo un tema aperto con la morte e il lavoro mi è servito molto. Alla fine, ho ringraziato alcune persone, che avevo in cura, per la loro sofferenza che avevano condiviso con me. Ho avuto il privilegio di essere la persona con la quale loro hanno potuto parlare profondamente del loro dolore e della loro paura. E questo mi dato tantissimo, mi ha fatto scoprire la gioia di vivere, che non avevo mai avuto, neppure da piccola.

Come era da bambina?

Ero molto complessa: una ragazzina pensante, ma con il passare del tempo tutto quello che ho fatto mi ha aiutata a cambiare e a migliorarmi.

Nella sua lunga e ricca esperienza come psicologa, cosa ha capito della natura umana? Di cosa pensa abbia bisogno l’uomo per stare bene con se stesso e con gli altri?

Credo di non aver capito nulla della natura umana. Non credo che per tutti gli uomini ci sia un’unica ricetta di star bene con se stesso. Star bene con sé stessi è un’opera difficilissima e a mio giudizio assolutamente incompleta, perché in continuo movimento, con momenti in cui si fallisce miseramente, e altri in cui si trionfa. La natura umana è sempre la stessa da sempre, questo mi ha insegnato psicologia. Penso che l’uomo abbia bisogno, sempre e comunque, di fare esperienze proprie, perché da quelle degli altri non si impara niente. Finché non si porta la propria sofferenza alla fine, non si impara. Specialmente se non ci si mette veramente nella situazione di voler imparare. Mi piace pensare che, nonostante la mia età, io abbia ancora tanto da imparare da tutti, specie da quelle persone piene di dubbi, che stanno con gli altri con la consapevolezza di intraprendere un cammino di cui sappiamo veramente poco, così si potrà arrivare alla meta.

Cosa avrebbe voluto fare che invece non ha fatto?

Avrei voluto ridere tantissimo, quando ero una ragazzina e poi avrei voluto fare la ballerina. Mi piace tantissimo ballare, mi piace tutto quello che movimento, tutto quello che chiamo “spettacolando”.

Lei si occupa anche di cultura e di spettacolo. Come è approdata a tutto questo?

Mi occupo di teatro, uno strumento nel quale io credo molto. Non sono un’attrice, non ho un ruolo preciso di lavoro. Sono una grande appassionata di questa forma d’arte e soprattutto ho usato la formula “di portare” il teatro a casa mia, in primis, per socializzare. L’ospitalità è un altro valore a cui sono stata educata, per cui è stato facile creare un connubio tra arte, cibo ed accoglienza e devo ammettere che mi ha dato moltissimo. Mi piace creare ambienti che infondano pace e serenità, creare benessere è come una missione. L’estate a casa mia, con gli incontri teatrali che organizzo in collaborazione con mio figlio che ha un’associazione culturale, oltre ad essere attore e regista, mi regala momenti unici.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Ne ho diversi: mantenere l’iniziativa estiva di fare teatro a casa mia, partecipare a iniziative culturali. Mi vengono idee e voglio farle vivere, ho una forza enorme e una tenacia un po’ atipica.

Lasci un messaggio a chi ci sta leggendo, o meglio dica qualcosa alle ragazze che saranno le donne del domani…

Cosa le posso dire alle ragazze che saranno le donne di domani? Dico di superarci. Oggi è sicuramente più semplice per loro, sotto certi aspetti, ottengono molti risultati. I ragazzi dovrebbero capire di non sottomettersi e di essere parte attiva, anche in politica, dove i vecchi hanno sicuramente fallito.

La società sta cambiando velocemente, non vi è più una definizione precisa delle cose. Oggi tutti possono fare tutto, lei cosa pensa di tutto ciò? Dove crede che ci porterà questo nuovo modo di affrontare la vita ed anche la professionalità?

Sono convinta che oggi tutti credono di poter fare tutto anche se in realtà tutti dovrebbero fare quello che sanno fare. Studiare è la soluzione, coltivare l’umiltà è poi fondamentale, per reggere la frustrazione.