Nella mia lunga esperienza in Africa, mi sono spesso imbattuto in un grave problema, purtroppo molto comune nella fascia equatoriale africana, che riguarda i bambini: la Tetralogia di Fallot patologia cardiaca così chiamata perché presenta quattro anomalie anatomiche. Per la diagnosi della Tetralogia di Fallot al paziente viene riscontrato un difetto del setto interventricolare, un’ostruzione del flusso sanguigno verso i polmoni, una posizione dell’aorta più a destra del normale e l’ispessimento del ventricolo destro, causata dell’ostruzione del flusso verso i polmoni. In questo quadro clinico, che caratterizza soprattutto bimbi in tenera età, viene ossigenata una scarsa quantità di sangue, ma la gravità clinica è, soprattutto, legata all’entità della stenosi polmonare (restringimento dei vasi) che condiziona, a sua volta, l’entità della cianosi. Il giorno in cui si presentò da me Irene, trentenne, madre di Neville, un bambino affetto dalla suddetta patologia, conoscevo questo quadro clinico solo nella sua accezione più generale, ma ignoravo il calvario che i piccoli pazienti dovevano subire prima di avviarsi ad una morte quasi certa per soffocamento, se non venivano operati. I cardiologi locali mi dissero, allora, che avevano osservato, in circa il 30 per cento dei casi, una connessione tra matrimoni tra consanguinei – molto comuni soprattutto in certe aree dell’Africa – e bambini nati con la Tetralogia di Fallot. Studi più recenti negli Stati Uniti, hanno valutato anche una stretta correlazione di tali sintomatologie con madri alcoliste. Credo, tuttavia, che la vera origine della malattia non sia ancora stata individuata.
Irene, inviatami dal Mombasa Coast General Hospital, nosocomio dove avevo svolto volontariato, mi chiedeva aiuto al fine di riuscire a portare il suo bambino in Italia, dove avrebbe potuto essere operato, visto che in Kenya non esistevano strutture per interventi a cuore aperto.
La donna aveva quasi del tutto esaurito quel poco di risparmi che possedeva in visite cardiologiche in cinque differenti ospedali ed era disperata. Di primo acchito, la mia risposta fu negativa, poiché, in quel periodo, non avrei saputo affrontare neppure il primo degli step necessari per un simile complicato iter, ma, vedendo quella creatura, che respirava a fatica, non riuscendo, talvolta, neanche a piangere per mancanza di ossigeno, promisi alla mamma, che, al mio ritorno in Italia, mi sarei interessato del caso.
Per fortuna, prima di partire da Mombasa, incontrai Nicolas, un amico che lavorava all’Emigration office, il quale mi promise subito che, se fosse stato necessario, avrebbe fatto preparare il passaporto per mamma e figlio in una settimana. Giunto a casa, però, non sapevo proprio da che parte cominciare e con chi parlare per seguire la procedura sia per ottenere un visto umanitario, sia per un aiuto internazionale. Corsi, per oltre una settimana, girai a destra ed a manca, chiedendo informazioni e telefonando, ma nessuno dei semi che avevo gettato, chiedendo un supporto, sembrava dare frutti. Una sera passai dalla mia parrocchia, ad Avenza, lungo via Covetta, per un’informazione che il parroco, padre Claudio, mi doveva fornire circa la Caritas diocesana. Mi fermai in chiesa e pensai: “Se il Signore in cui credo, vuole salvare la vita di Neville, mi ispirerà sicuramente per capire la strada da seguire!”. Affidai così alla Divina Misericordia le mie scelte future. Onestamente, ora, non so dire se, realmente, ricevetti un aiuto o fu il caso, ma tre giorni dopo mi fu presentato un anestesista dell’Opa di Massa. Quel dottore mi mise in contatto con l’organizzazione “Insieme”, che ha sede all’Opa e che, appunto, ospita e fa operare presso quel nosocomio i bambini cardiopatici.
Foto per gentile concessione di Stefano Guidaci