Nel 2015, abbiamo firmato un accordo con il governatore della contea di Mombasa, per poter ospitare, non solo i ragazzi, ma anche le ragazze orfane, cosa malvista poiché Evelyne, la donna che aiutava i ragazzi di strada e che ha ispirato la fondazione dell’orfanotrofio a lei dedicato, sosteneva sempre che erano, soprattutto, le adolescenti, in Kenya, a subire le maggiori traversie emotive e fisiche. Quando i social workers ci portarono le prime ragazzine, da un lato, fui felice di aver realizzato il sogno originario di Evelyne, dall’altro mi trovai davanti a un doloroso universo fatto di abusi e soprusi.
La prima adolescente che mi fu portata a colloquio si chiamava Agatha. Disse di avere 12 anni e che aveva già partorito un bambino alcuni mesi prima. Rimasi molto stupito e lei si mise a piangere. Ci vollero alcuni minuti per farla risentire a suo agio e solo allora mi confessò che, dalla morte dei suoi genitori, avvenuta 10 anni prima, fino al giorno precedente, aveva vissuto con il fratello maggiore il quale, da oltre due anni la violentava sistematicamente. Agatha era rimasta incinta del fratello e aveva partorito un bambino con grossi handicap. Per questo, la Women Rappresentative della contea le aveva tolto il neonato per metterlo in una struttura adeguata e, poi, mi aveva contattato affinché aiutassi la madre bambina.
La seconda adolescente che arrivò si chiamava Dorine ed aveva 11 anni. Anche lei venne inviata da noi dai social workers. Dorine raccontò di essere stata sottratta alla strada, dove viveva, da un signore israeliano, che l’aveva caricata in macchina e l’aveva portata a casa sua. Dorine era rimasta prigioniera in quella casa per due anni, sottoposta a ogni tipo di sevizie dal suo aguzzino, senza mai poter uscire di casa. Erano stati i vicini, un giorno, allarmati dalle grida di Dorine, a chiamare la polizia. Lo stupratore venne messo in carcere, ma, dopo alcune settimane, qualcuno pagò per lui il “bail”, una cauzione di un milione di scellini e quel cittadino israeliano fu liberato. Sul suo passaporto, però, venne messa la diffida a non entrare mai più in Kenya. La ragazzina invece fu lasciata, per qualche tempo, da una lontana cugina, senza alcun sostegno psicologico e, in seguito, venne mandata al mio centro.
Credo risulterebbe troppo lungo e, magari, tedioso continuare a raccontare le tristi vicende di queste povere creature. Ognuna è arrivata con la propria storia e con il fardello di sofferenze che ne condizionava emozioni e comportamento, ma, ad oggi, nonostante abbiano raggiunto l’età per poter lasciare la struttura, alla prima difficoltà che incontrano, vanno nel panico e nel blocco interiore: si chiudono in se stesse e non riescono a comunicare con le altre.
Colgo questo spunto, per esporre un’altra delle difficoltà, che ci si è presentata di recente. Alcuni dei nostri orfani e orfane sono diventati maggiorenni, perciò, sono desiderosi di uscire ed aprirsi al mondo. Del resto, anch’io non potrei supportare un numero più elevato di ospiti, visto che ci vengono chiesti di continuo nuovi inserimenti. In questo senso, mi stanno aiutando molto, le suore dell’ordine di San Giuseppe ed anche alcuni membri della diocesi, ma, nonostante il loro quotidiano impegno, insorgono continue difficoltà logistiche, viste le profonde carenze di base che questo paese ha già nel suo retaggio storico.
Non più tardi di un anno fa, ad esempio, Zipporah, una ragazza di 19 anni alla quale avevamo trovato una piccola occupazione come commessa in un negozio di uniformi scolastiche, ha conosciuto ed ingenuamente stretto amicizia con dei ragazzi mussulmani, che la hanno drogata e violentata tutti insieme, mettendola incinta. Oggi, Zipporah ha un bambino di poco più di tre mesi, non conosce il padre di suo figlio e cerca di tirare avanti riscuotendo circa 500 kes al giorno.
Foto per gentile concessione di Stefano Guidaci