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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Quando l’orizzonte finisce intorno ai propri piedi: i mecapal del Guatemala

DiGianni Ammavuta

Set 18, 2022

Dove andiamo questa settimana: Città del Guatemala, Guatemala
Coordinate: 14°37′16″N 90°31′37″W
Distanza da Firenze: 9.795 km

Per immergersi negli umori di una città, per carpirne lo spirito e l’essenza, spesso, il luogo migliore da visitare è il suo mercato centrale. In moltissime parti del mondo il ruolo che esso riveste è tutt’ora fondamentale e travalica la sua importanza economica, per farsi ultimo depositario e narratore dei tratti di un’intera identità socio-culturale che sta via via svanendo.

Le regole sono semplici e identiche, quasi dovunque: si comincia all’alba e si finisce quando il sole va a svegliare l’altra metà del pianeta. Anche il grande mercato La Terminal di Città del Guatemala non fa eccezione. Intorno al moderno corpo centrale, esso si sviluppa in un reticolo inestricabile di vicoli e pertugi, occupando un intero quartiere. Se si alza lo sguardo oltre l’orizzonte delle teste delle migliaia di persone, che battono questi selciati per vendere o comprare, si notano panni stesi, bambini affacciati alle finestre, gatti che balzano da un edificio all’altro tanto sono vicine le pareti: notazioni di un’umanità antica e resiliente che da generazioni abita questo luogo. Lo spirito del Guatemala e, forse, dell’intera America Latina, è racchiuso in questa esplosione di rumori, colori, disordine, profumi, tanfo, sporcizia, caldo umido e predicatori. Sì, perché ad ogni angolo, fra teste di squalo e chele di granchio, pomodori, mais, legumi, carbone, vestiti, giocattoli, pomate miracolose per peni in disarmo o nuche disadorne, medicinali più o meno legali, si trova un predicatore. Sono ovunque. I più organizzati parlano con un megafono, gli altri col solo ausilio delle loro corde vocali, e in quel bailamme le loro invettive si perdono quasi subito. Ma la profonda vocazione cattolica di questo paese e di questa gente si manifesta anche altrove: non c’è, quasi, negozio che non si chiami col nome di qualche santo o che non riporti qualche appellativo mariano.

Nella zona dei cassonetti, invece, non c’è posto per il fervore religioso. Qui il tanfo raggiunge livelli tossici. Un gruppo di donne rovista tra gli scarti del mercato per raccogliere la plastica: una sorta di raccolta differenziata. Prendono meno di una miseria per ogni bustone di plastica riciclabile, che riescono a riempire. Raramente ne fanno più di una al giorno. Poco più in là, i colpi di macete, con cui gli uomini tagliano noci di cocco e frutti di ogni sorta, risuonano nell’aria, come una specie di ritmo tribale.

C’è qualcosa di atavico in questo marasma, qualcosa che ci appartiene nel profondo e di cui siamo figli tutti noi, in varia misura e che lo rende bello e caratteristico agli occhi di chi ci passa una giornata da turista e poi torna alle sue comodità. Ma poi, come ti distrai un attimo, ecco che una figura smagrita, china sotto un peso impossibile, quasi t’investe, mentre passa a testa bassa. E come lui, decine di altri fendono la folla che li inghiotte, come per osmosi, e si modella intorno al loro passaggio, senza intralciarli o rallentarli. Sono i trasportatori, i facchini che spostano carichi disumani da un punto all’altro del mercato, aiutandosi con un antichissimo strumento: il mecapal. È una fascia che si mette sulla fronte e che finisce in due corde che sono legate al carico che si porta sulla schiena. In questo modo il peso è sostenuto e bilanciato dalla testa e dai muscoli del collo. Ma quando il carico è particolarmente pesante, il facchino deve piegare il tronco quasi a metà, non potendo più alzare la testa. Il sistema di interscambio, che anima questo antico mercato e dal quale dipende l’intera capitale guatemalcheca, non potrebbe mai funzionare senza il lavoro di questi uomini. Portano carichi che sono il triplo del loro peso, per dieci ore al giorno, tutti i giorni, senza sollevare mai lo sguardo, orientandosi con i suoni e una conoscenza dei luoghi, che viene da lontano. Procedono spediti, guardando sempre e solo per terra, ai propri piedi, a quelli altrui e alla striscia di strada, che stanno percorrendo per arrivare a destinazione, dove li aspetta un nuovo trasporto. Il mecapal è un retaggio del sistema schiavista: la fascia sulla fronte faceva sì che gli indigeni venissero trasformati, praticamente, in bestie da soma. Nello stesso tempo, la postura china e la limitazione del campo visivo, come in un continuo atto di riverenza, assolvevano brillantemente al compito di non far mai dimenticare loro, la propria condizione di inferiorità.

Una vita intera senza alzare mai lo sguardo. Una vista sul mondo che finisce poco più avanti dei propri piedi. Pensateci. Ci sono centinaia di milioni di persone che vivono questa condizione, anche senza un mecapal che cinge loro la fronte. Il carico che portano sulle spalle è diverso da quello che spezza le ossa della schiena dei facchini de La Terminal, è vero, ma siamo sicuri che sia meno pesante? E quanti di noi – che fortunatamente viviamo in una parte di mondo che non è ancora interessata da problemi simili – possono dire di vivere guardando avanti davvero? Senza costrizioni, senza vincoli, con fiducia, con speranza. La verità è che viviamo quasi tutti a testa bassa, con nient’altro da vedere tranne le punte delle nostre scarpe, ed è per questo che proliferano, e che noi amiamo, gli strumenti che ci illudono del contrario.

Fonte: Internazionale