• Ven. Nov 22nd, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

«… lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra bianchi marmi la spelonca per sua dimora…» Divina Commedia, Inferno XX Dante Alighieri

Parafrasando Ennio Flaiano, oggi vorrei raccontare la storia di un toscano che ha vissuto a Roma.  Uno dei tanti, una storia simile a quella di molti. Lo chiameremo Dante, in onore del sommo poeta. Il nostro Dante nacque a Carrara alla fine del 1800 o forse all’inizio del 1900. La sua fu un’infanzia difficile, una famiglia umile e tante bocche da sfamare per i suoi genitori. Non partecipò alla prima guerra mondiale, anche se avrebbe voluto. Era  la Carrara che viveva e respirava marmo, il materiale che Michelangelo era riuscito a plasmare come creta. Dante iniziò a lavorare nell’età in cui l’adolescenza scivola verso la giovinezza, dovendo contribuire al reddito famigliare. Arrivò di mattina presto alla cava di marmo del paese di Torano. Aveva percorso  due chilometri a piedi: ne dovrà fare altrettanti per tornare a casa,  dopo il massacrante turno di lavoro. Dante aveva osservato, per tutto il giorno, quel filo di acciaio che tagliava le lastre, l’acqua che scorreva per mitigare il calore e per conservare la purezza del materiale. Aveva respirato la polvere di marmo prodotta da quei fendenti che tagliavano la montagna.

Quella notte non era riuscito a dormire. Aveva dentro l’adrenalina: quella di far parte di qualcosa di grandioso che stava per accadere. Dante si sposò  giovane, ebbe dei figli. Quando, nel 1922 Mussolini prese il potere, il nostro toscano si invaghì di quell’uomo, che gli sembrava raccontasse di un paese meraviglioso, di un futuro radioso. Nel frattempo si era  trasferito in una cava a Miseglia. Il compenso era più elevato e la famiglia necessitava di maggiori introiti. Era il 1928: l’architetto carrarese Enrico Del Debbio aveva progettato un imponente impianto sportivo, convitti: il Foro Mussolini. Del Debbio aveva progettato, su richiesta di Renato Ricci, carrarese fedelissimo del duce, un obelisco, che si ergesse per celebrare il capo del fascismo. Il blocco da cui trarre l’obelisco, dopo molte ricerche venne trovato nella cava Carbonera, nel bacino di Torano e molti cavatori vennero chiamati lì per aiutare ad estrarlo. Dante e i suoi colleghi scavarono per giorni: alla fine, la colonna lunga 17 metri e larga due metri e trenta, che pesava 300 tonnellate, venne alla luce in tutto il suo splendore. La colonna fu racchiusa in un’armatura di legno e acciaio e fatta scivolare lungo il crinale della  montagna su traverse di legno lubrificate con il sapone. Dante decise di seguire la discesa di quel blocco di marmo,  che sentiva quasi come un  suo figlio e che avrebbe dovuto rendere omaggio a Mussolini. Il viaggio del blocco proseguì su strade impervie, su un carro trainato da trenta coppie di buoi. Dante e la colonna giunsero al porto di Carrara nel giugno del 1929. Entrambi si imbarcarono su una chiatta galleggiante, chiamata Apuano. Dante osservò il Mar Tirreno, quel natante con il suo prezioso carico, si sentì parte della storia. L’Apuano attraccò alla foce del canale di Fiumicino nei pressi di Roma. Il progetto era quello di risalire il fiume sfruttando le piene, il Tevere era all’epoca ancora navigabile. Dante non vedeva l’ora di arrivare a Roma, la capitale dell’impero. Era il 1932 e l’obelisco fu eretto sotto la guida dell’ingegnere Costantino Costantini. Il 4 novembre del 1932, ricorrenza della vittoria, venne inaugurato alla presenza di Benito Mussolini. Dante si sentì al settimo cielo. Decise di trasferire tutta la sua famiglia a Roma: quella avrebbe dovuto diventare la loro città, il duce il loro condottiero. Grazie alla sua fedeltà al regime, la moglie di Dante iniziò a lavorare nelle strutture sportive del Foro Mussolini. Il nostro toscano era felice, aveva trovato la sua dimensione: quella città, l’aria che si respirava, faceva per lui. I bei sogni, però, restano solo nella nostra mente oppure si trasformano a causa di eventi esterni. Arrivò la guerra, la fame, gli stenti. Tutte le speranze furono disilluse, Dante si sentì tradito da quella causa nella quale aveva creduto, a cui aveva dedicato tutte le sue forze. Affrontò il dopoguerra e la difficoltà a ricollocarsi, facendo lavori saltuari. Fortunatamente la sua manualità gli venne in soccorso. La vita, nel frattempo, aveva  preso strade impervie: sua moglie morì giovane. Dante si rifece una vita, i rapporti con i suoi figli furono difficili, solo sua figlia gli rimase accanto. Divenne nonno e per onorare il suo illustre conterraneo, scrisse delle poesie dedicate a suo nipote, pagine che l’uomo ancora conserva. Dante ebbe altri figli dalla sua nuova compagna, si traferì in quella periferia romana, che all’epoca lambiva ancora una campagna priva di cemento. Negli ultimi anni faceva fatica a respirare: la silice, la polvere di marmo inalata, gli aveva compromesso i bronchi. Dante visse gli ultimi anni della sua esistenza ripensando a quell’impresa epica. Si rivide giovane e vigoroso mentre scavava per cavare dalla montagna quella colonna che avrebbe dovuto celebrare un uomo, che lo aveva illuso e abbandonato. Rivisse la sua infanzia, quel primo giorno a Torano, quella polvere che gli sembrava magica e che era il veleno che lo stava uccidendo. Questa è la storia di un toscano che ha vissuto a Roma, una persona speciale o uno dei tanti.

La storia viene fatta dagli uomini e raccontata da chi ha memoria per ricordare che ognuno di noi è solo una piccola particella dell’universo.