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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Il mio orfanotrofio: ispirazione e travaglio (prima parte)

DiStefano Guidaci

Set 5, 2022

Tutto iniziò nel 2005, quando conobbi Evelyne. Lei era una ragazza keniota che, periodicamente veniva a fare terapia al Coast general hospital di Mombasa, dove io ero volontario. Un giorno la incontrai, casualmente, fuori dall’ospedale, mentre stava distribuendo delle patatine e del tè in lattine riciclate, ai bambini che vivevano in strada. Si trattava di ragazzini tra i 5 ed i 15 anni, chiamati chocorà, che ancora oggi affollano le strade della città: sono tutti rimasti senza familiari che si prendano cura di loro, per cui si aggregano in piccoli gruppi e vivono di espedienti. Molti di loro sono soliti sniffare colla, non potendo permettersi altre droghe. La vita media in Kenya è di circa 45 anni. Le coppie danno alla luce molti figli, ma, di sovente, non superano i 50 anni di età, viste le gravi patologie che si possono contrarre: malaria, HIV, colera, tifo, dengue fever. I figli vengono, spesso, lasciati a loro stessi, così si aggregano tra di loro, formando piccole bande.

Ricordo che il giorno successivo al mio incontro con loro, le strade vennero ripulite ed i chocorà furono raggruppati in tre piccole celle senza luce alla locale stazione di polizia, perché doveva arrivare in visita a Mombasa, l’allora Presidente Kibaki: dopo circa 24 ore, essi vennero riscaricati nelle strade. In quei giorni fui profondamente colpito sia dalla situazione di sofferenza e di degrado in cui queste creature versavano, sia dall’amore che Evelyne trasmetteva con i suoi gesti di generosità, nati solo per iniziativa personale e senza l’aiuto di nessuno. Per qualche settimana andai anch’io, a volte anche da solo, a offrire aiuto per strada anche da solo, ma, dopo aver subito qualche furto, continuai quell’opera con Evelyne e, intanto, cominciai a riflettere su come poter aiutare quei bimbi con la stessa dedizione, ma in modo più razionale.

 Mi venne in mente di cercare di radunarli in qualche centro da affittare a giorni alterni per offrire loro un po’ di cibo e formazione, ma scoprii presto che ragazzi, specialmente quelli più grandi, non essendo abituati a vivere in spazi ristretti, non riuscivano a star chiusi in un luogo per più di qualche minuto. Diventavano subito aggressivi e scappavano. Tuttavia, non mi detti per vinto. Pensai, allora, di affittare una grande stanza davanti alla Cattedrale della città, luogo in cui c’erano molti spazi e, di chiedere l’aiuto di alcuni volontari della diocesi di Mombasa, per far intervenire uno specialista, che si prodigasse per aiutare i ragazzi nelle loro problematiche e ridurre pian piano il loro uso delle droghe.

L’iniziativa sembrava iniziasse a funzionare, quando, riunitosi il consiglio pastorale della Cattedrale, di cui facevano parte anche le autorità civili della città, mi fu imposto di lasciare la locazione adducendo motivi di decoro pubblico del centro della città e potenziali pericoli di furti e scippi, che, a loro dire, si sarebbero moltiplicati.

Dopo essere stati cacciati dai locali vicini alla Cattedrale, scoprii che l’associazione San Vincenzo de Paoli aveva un centro da ristrutturare e chi l’avesse finanziato avrebbe avuto vantaggi nell’eventuale locazione. Decisi di prendere in considerazione la proposta, quindi, mi venne sottoposto un contratto. Mi sembrò equo, tuttavia, decisi, comunque, di farlo valutare anche da un legale e questo mi fece notare che alla fine dell’impaginazione, in basso, in caratteri molto piccoli, era specificato che, dopo la mia ristrutturazione avrei potuto usufruire del centro per soli sei mesi. Naturalmente ringraziai l’organizzazione e salutai, visto l’imbroglio a cui sarei stato sottoposto se avessi accettato.

Mi rivolsi allora ad una agenzia immobiliare la quale, dopo qualche giorno, mi fissò un appuntamento con il proprietario di un terreno nella zona nord della città. Lì, avrei potuto costruire un edificio per accogliere, rieducare e formare quei bambini che tanto avevano coinvolto il mio cuore. Mi si presentò un signore che, in maniera austera, mi fece subito presente che molti avrebbero voluto acquistare quel terreno. Gli spiegai che volevo comprarlo per costruirvi un orfanotrofio e che, quindi, anche lui, vendendomi il terreno, avrebbe contribuito, indirettamente, a fare il bene della comunità e lui mi rispose: “Ebbene ti darò la priorità sulla vendita, ma mi dovrai versare una caparra di 500 mila shellini (poco meno di 5000 euro)”. Era un cifra molto alta, per quegli anni, in Kenya, per un deposito. Comunque accettai, ma gli chiesi due giorni di tempo, con la scusa di racimolare il denaro. In realtà, mi recai al Land office (il nostro ufficio del territorio) per verificare chi fosse il proprietario del terreno. Con mia grande sorpresa, il responsabile dell’ufficio mi mise in guardia dicendomi che quello che si spacciava per proprietario del terreno, in verità, era solo un imbroglione. Costui, carpendo la mia buona fede, mi avrebbe dato la priorità nella vendita, rubandomi 500 mila shellini alla faccia dell’aiuto ai bambini. Provai, inutilmente e con molte peripezie, a rintracciarlo e a denunciarlo, ma era sparito nel nulla.

A quel punto, il parroco e il priore di Mombasa, mossi da compassione per la mia storia, decisero di aiutarmi e mi diedero il permesso di costruire il mio orfanotrofio su uno dei terreni della diocesi. Così riuscii a coronare il sogno di portare in una mia struttura, almeno una parte dei chocorà, disprezzati da tutti.