Torniamo a quelle pietre della bottega di Barbischio, di cui ho parlato nell’incontro con Bruno Camaiani, perché c’è ancora tanto da raccontare. Negli anni ’90 la bottega di Barbischio divenne un’osteria. Claudio Bonci, Riccardo Rauggi e Francesca Foti sono gli osti, coloro che dal 2008 accolgono gli avventori. Oggi Francesca non c’è, quindi parlo con Claudio e Riccardo.
Claudio, appassionato di storia, mi mostra una piantina del paese. La prima costruzione disegnata è quella della bottega, le cui origini risalgono alla fine del 1500. Era il primo luogo di accoglienza che si incontrava prima di accedere alla porta delle mura del paese, che, purtroppo, non esistono più. Le pietre delle pareti sono originali: ci passo una mano per imprimere sulla pelle la geografia del loro passato e respiro l’aria che respirarono gli avventori, che vi hanno stazionato; sopra di me un soffitto in legno, alcune travi sono annerite probabilmente da una fonte di calore che scaldava l’ambiente e dava conforto a chi varcava quella porta in legno.
In compagnia di Claudio e Riccardo il tempo pare essersi fermato: sono passati secoli ma lo spirito di questi osti non è cambiato. L’hospes, l’oste, è colui che ospita: per loro, ospitare è una filosofia di vita. L’accoglienza, mi dicono entrambi, è divulgazione di cultura, è far sentire a proprio agio le persone e, quando se ne ravvisano le intenzioni, è anche intrattenersi con loro, magari per raccontare il passato di quell’ambiente. Chiedo a Claudio quanto significhi per lui lavorare in un posto con un vissuto ricco di storia: “Subisco il fascino dell’antico e mi piace pensare che stia proseguendo una storia, che viene dal lontano, dal passato. Ai nostri clienti dico che, se queste pietre potessero parlare, racconterebbero le vicende di coloro che sono stati qui, fatte di quotidiano, di ubriacature, bestemmie, amori, passioni, periodi di guerra e periodi di pace, atti di eroismo, di generosità ed egoismo: una storia che è stata scritta giorno per giorno, fino a oggi, e, della quale, da quel momento, ne fanno parte anche loro.» Mentre parliamo, sorseggio il vino che mi hanno offerto e nell’aria si diffonde un suadente profumo di sugo. Mentalmente lo associo a delle allettanti pappardelle.
Forse è vero quel che entrambi asseriscono, e cioè che, per stare al pubblico, ci vuole tanta psicologia. Mi viene naturale pensare che oltre a questo, sia basilare amare ciò che si fa, e, in loro, questo amore lo colgo, mentre mi descrivono come viene fatta la scelta del menù: piatti tradizionali fissi, quelli fuori menù e quelli, ovviamente, stagionali. È Riccardo, però, che mi porge sul tavolo l’ingrediente principale per la loro riuscita. “La componente affettiva è basilare, ogni piatto porta con sé ricordi di infanzia, magari di una nonna, e legato ad essi le tradizioni della nostra terra che sono la nostra storia”. Rimane stupito quando gli chiedo che ruolo abbia chi descrive i piatti ai clienti: “La risposta è insita nella tua domanda! Descrivi quel piatto e il perché è nel menù”.
Anche se si definiscono osti, definizione su cui concordo, penso anche che, da buoni ristoratori, elargiscano ristoro sia fisico, sia morale. Indubbiamente l’atmosfera che si respira in questo luogo fuori dalle rotte di transito, in cui si beve e si mangia, circondati da pietre millenarie, sia all’interno, sia all’esterno del locale, predispone alla tranquillità e alla convivialità: sembra, davvero, che il tempo si sia fermato. Non stupirebbe sentire lo scalpitìo di un cavallo che arriva dalla valle sulla strada sterrata, mentre si mangia un piatto di cinghiale in umido, annaffiato da un buon Chianti, stappato con il tirabusciò che l’oste tiene nel grembiule.
Dato che, volente o nolente, subisco l’incedere del tempo scandito dalle lancette, chiedo a Riccardo come sia la loro giornata tipo all’osteria Il papavero: “Non c’è giornata tipo: qui è jazz, improvvisazione pura. Come ieri sera, che è saltata la luce per un blackout in tutto il paese”. Beh, mi sono detta, forse qualcuno avrà potuto storcere il naso per l’inconveniente, altri invece avranno provato l’emozione di sentirsi, per un po’, avventori della fine del 1500, illuminati dai raggi della luna filtrati dalla piccola finestra e da qualche moccolo, posizionato in mezzo al tavolo di legno e inebriati da un piatto dai sapori antichi del Chianti.
© Foto di Silvia Ammavuta