Rina
Ho seguito Bianca e i ragazzi nel salone. Non credevo che gli avrebbe mostrato il nostro segreto. Ora la situazione si fa pesante. Con il candelabro acceso mi faccio strada e gli appaio come un fantasma. Infatti mi sentono e si girano a guardarmi. “Per l’amor di Dio, Bianchina, che fate? Lasciate i bambini! Andate, diavolini benedetti, andate via! Scappate! E non dite niente alle vostre mamme di quello che avete visto. Non una parola degli oggetti, ma soprattutto delle armi, niente! Mi raccomando! Alla signorina Bianca si spezzerebbe il cuore! Per carità! Non volete mica averla sulla coscienza, vero? Presto, via, via! Me lo promettete? Sarà il nostro segreto!”. Bianca adesso mi fissa. Ben riconosco l’espressione che le si pianta sul viso quando digrigna i denti, quando vuole di più. Bianca vuole trattenere i bambini. Li vuole con sé e io non la posso deludere. La ragazzina ha un’espressione disgustata e – mio Dio scusami – la vorrei infilzare quando la sento dire: “Ma allora eri tu che rubavi le cose? I miei stivali, il fortino, mille cose! Ma come avete fatto a tenere qui nascosta tutta questa roba? C’è un puzzo fortissimo, mi viene da vomitare!” Che vocina odiosa che ha! Stringo la presa sul candelabro. Si fanno troppo curiosi. Giudicano. Diavoletti viziati, insensibili. Si intrufolano illecitamente nelle case degli altri e poi non sanno affrontare la realtà. Certo, sì, devo ammettere, la naftalina non riesce bene a coprire l’odore, però questa mocciosa non può criticare e svilire il nostro raccolto, fatica di anni. Mi avvicino a loro. “Guardate quante cose ho racimolato qui! Non è meraviglioso? Questo, per esempio! Scommetto che a te manca, Tommaso: un album completo con tutte le figurine dei calciatori del campionato. Sì, l’ho rubato di nascosto, ma alla nonna di quel bambino, in cambio, ho lasciato il ventaglio andaluso della Contessa Waltrude. Vi ricordate, Bianchina, quando la cugina Carmen Esmeralda è venuta in visita a Montalcino?” I ragazzini nemmeno mi rispondono. Il maschietto è come paralizzato, poi all’improvviso vomita. Sulle pantofole di Bianchina che però mantiene il controllo. Silvia cerca di divincolarsi e grida, chiede aiuto. Che inopportuni! Ora sì che li voglio spaventare questi ficcanaso. Hanno cominciato ad urlare, mi danno ai nervi. Non possono rovinare tutto il mio lavoro.
“Adesso basta! Avete visto troppo e non potete non aver capito. Volete vedere che prendo? Ecco, osservatela bene! È vera, che credete? Sono armi vere! Mica come i tuoi giocattolini, Tommaso. Queste sono signore pistole. E ce ne erano altre dall’avvocato Bottai! È questione di saper rispettare i segreti degli altri. Come fate a non capirlo. Io mica vado in giro a spifferare che lui ha un arsenale. Avrà i suoi buoni motivi! Ne ho solo prese alcune e a lui ho lasciato in cambio una Bibbia rilegata in pelle. Che gli sia di conforto! Piccoli diavoli! Non uscirete da qui a dire tutto agli altri!…
Ah…che succede? Accidenti! E ora? Gesummaria! Amen, il fuoco ci purificherà tutti. Non può farci che bene. Bianchina, guardate il balletto rosso delle lingue crepitanti sui quaderni, sulle riviste, sui tappini di plastica. Buffi, no? I succhiotti di gomma che si accartocciano, i soldatini che prendono vita contorcendosi. Un’apocalisse. Non è wunderbar, come dite voi?” …
Silvia
Rina è arrivata con il candelabro in mano. Ci giriamo per guardarla. Sembra uno spiritello illuminato dalle fiammelle. Ha parole gentili, è comprensiva e, infatti, cerca di convincere la contessa, ma invano. A me escono frasi a ripetizione. “Ma allora eri tu che rubavi le cose? I miei stivali, il fortino, mille cose! Ma come avete fatto a tenere qui nascosta tutta questa roba? C’è un puzzo fortissimo, mi viene da vomitare!”
Non mi risponde. Guarda la sua signora senza parlare. Comunicano silenziosamente tra di loro. Sono secondi. Rina si avvicina a noi e comincia a vaneggiare. Vuole convincerci della bellezza del loro tesoro. Parla di un album di figurine, di un ventaglio, di una cugina, di tutte le loro cose. Mi giro di botto verso Tommaso perché sta rigettando. Una pappetta giallastra cade sui piedi della contessa. Farfuglia mentre io urlo. Comincio a chiedere aiuto e così fa anche Tommi. Di punto in bianco Rina diventa minacciosa. Si china per raccogliere qualcosa. Il candelabro si piega, vacilla, cade. Ora ha una pistola in mano e continua la sua litania di discorsi, continua a vomitare parole mentre le fiamme si attaccano ai capelli della bambola, poi alla carta delle uova stantie di Pasqua.
Non possiamo rimanere paralizzati davanti alla montagna di oggetti che attende l’avanzare del fuoco. Se non ce la diamo a gambe, i nostri genitori non ci troveranno più. Cerco la mano di Tommaso. Bianca ha lasciato la presa e anche Rina ha abbassato il braccio con la pistola.
Corriamo. Via. A ritroso. Attraverso il tendone, il salottino, il corridoio, la cucina. “Vai, Tommi, corri!” E poi giù per le scale barcollanti finché non siamo al sicuro e ci chiudiamo alle spalle la porta della mia cucina. “Mamma, presto, i pompieri! C’è un fuoco di sopra! No, non siamo stati noi, tu chiamali e basta. Presto. Chiamali! Il fuoco è dalla contessa! Loro sono lì!”
Ci accasciamo sulla poltrona sfatta accanto alla finestra fino all’arrivo delle sirene squarcianti. “Guarda, Silvia, guarda!” Tommaso mi sorride e mi sventola sulla faccia l’album gonfio di figurine, quello tanto declamato dalla Rina. “Wunderbar!” rispondo io e, direttamente dalla tasca del mio grembiule, gli rovescio sulle ginocchia una pallina pelosa. “Ahi, Silvia, ma mi graffia tutto! Nervosetto questo gattino, eh?”.
Illustrazione di Ilie Pirojkov classe III A del liceo artistico Gentileschi di Carrara