Era l’ora di pranzo e i cavatori, come ogni giorno, si erano riuniti nel piazzale della cava, per consumare un pasto portato da casa, seduti sui ciottoli giganti dei blocchi estratti che fornivano abbondanza di sedute naturali. Era il 26 luglio, faceva molto caldo a Bettogli, nella cava dei conti Lazzoni, e il sole a picco sul marmo raddoppiava la sua luce accecante e il suo calore, come se fosse riflesso in uno specchio. I cavatori avevano cercato un angolo di ombra a ridosso della montagna di marmo, per avere tregua, almeno mentre mangiavano, da quel caldo soffocante. Erano in dieci: i più giovani seguirono gli anziani, con il rispetto che si deve ai più esperti. Angelo Pasquini era un veterano, con i suoi 71 anni trascorsi, quasi tutti in cava, ma era vecchio e non più agile come nel fiore degli anni. Massimo Fracassi con i suoi 47 anni e Giuseppe Garella, che ne aveva 43, erano gli esempi da seguire e Luigi Mazzi, 32 anni, Giovanni Musetti, 35, Domenico Verdini di 31 anni e Romeo Giromini, trentenne, lo sapevano bene. Poi c’erano i ragazzi: il ventenne Andrea Strenta e Cleonte Barbieri, che nonostante quel suo “nome da adulto”, aveva solo 15 anni e infine Galliano Cupini, che con i suoi 13 anni era ancora relegato nel ruolo di bagascio, cioè ragazzo di fatica in aiuto ai cavatori. Neanche pensabile, per i più giovani, contraddire i “grandi”. Se anche qualcuno, quel giorno, avesse notato che il posto appena riparato dalla calura, era un po’ troppo sotto le bancate tagliate sul fianco della montagna, se qualcuno, per caso, avesse avuto perplessità sulla tenuta del costone sopra le loro teste, probabilmente non l’avrebbe detto, perché il posto in cui mangiare, scelto dai cavatori esperti era quello e le gerarchie del rispetto, nel 1911, non si discutevano. Si sedettero in quell’ombra, fin troppo lunga e sinistra, e tirarono fuori i loro tronchi di pane col lardo, qualcuno una gavetta con dentro la minestra nei fagioli del giorno prima, e uno o due fiaschi di vino, per dare tregua e ristoro e per dimenticare, per un attimo, quanto era duro tirar fuori il marmo dalla montagna. I “vecchi” avranno lanciato mottetti (fatto battute) ai giovani, probabilmente in tanti avranno riso. Una scena quotidiana di un lavoro secolare e massacrante. Un giorno come tanti, che, in un secondo, rimase inciso nella storia delle cave di Carrara, per sempre. All’improvviso le rocce tagliate sulla tecchia crollarono e una valanga di sassi di marmo si ingoiò tutti quanti, i cavatori esperti e i novellini, che non ebbero, neppure, il tempo di cercare una via di scampo. Il disastro di cava Bettogli fu uno dei più grandi mai avvenuto nelle cave di Carrara. Il suono della sirena annunciò l’incidente, seminando il gelo nella città al piano. Le donne, soprattutto, madri, mogli, figlie, sorelle lasciarono tutto e corsero lungo la via Carriona, verso le cave, in cerca di notizie, ognuna sperando che non si trattasse del proprio congiunto e che il danno fosse limitato. Ma le voci che rotolavano giù dalla montagna, pesavano come i massi trascinati a valle da una frana: i morti erano tanti, ai Bettogli erano morti tutti. La città intera rimase straziata dal dolore per quella strage e quando, pochi giorni dopo, furono celebrati i funerali, una folla spaventosa si accalcò nel centro cittadino e volle accompagnare a spalla le dieci bare verso la chiesa e, un ultima volta, lungo le vie della città.
© Foto Archivio Michelino