Prima di iniziare la stesura di questi miei “diari africani”, consentitemi di ringraziare il direttore di Diari Toscani, Vinicia Tesconi, la quale, grazie alla sua speciale sensibilità e preparazione, mi ha offerto l’opportunità di dar voce a tanti milioni di persone che vivono in questo continente.
Credo sia necessario, in questo mio primo articolo, descrivere il tenore di vita del corno d’Africa ed in particolare del Kenya, al fine di coinvolgere e rendere edotto il lettore sul perché di certe mie scelte, prima di cominciare a raccontare direttamente delle mie esperienze e del mio orfanotrofio.
Al di là dei luoghi comuni, che giungono dai mass media e al di là delle posizioni di certi politici, che usano la povertà in Africa per loro fini strategici, la realtà dell’Africa è ben diversa da quella che si dipinge in Europa. Innanzitutto, nella società africana non esiste una classe media, che abbia almeno il necessario per vivere, senza eccessi. Appena il 10 per cento della popolazione risulta essere abbiente, il restante 90 sopravvive o vive di espedienti, sbarcando il lunario giornaliero come capita. I salari medi, quando si ricevono, variano da zona a zona, a seconda che ci si trovi nelle grandi città, nelle regioni collinari o nella Rift Valley. In Kenya, il tasso di cambio con l’euro, che naturalmente varia ogni giorno, è valutato, nel momento in cui scrivo, attorno ai 120 scellini (kes) per un euro. Per avere un’idea generale dei salari giornalieri medi, un lavoratore senza qualifica prende 300 kes, un receptionist o un segretario sono pagati 750 kes, un artigiano arriva a circa 850 kes al giorno, un giardiniere, un clener o un Askari (cioè un guardiano) sono intorno ai circa 500 kes, un house boy o cuoco prendono 300 kes al giorno.
La dieta quotidiana del popolo keniota ha, come cibo base, l’Ugali, una polenta bianca, preparata con farina di mais, che usano come noi usiamo il pane e che accompagnano, quando possono, con pesce (soprattutto sulla costa) carne, uova o verdure. È necessario tener presente che un chilo di questa farina nel 2000, quando sono arrivato qui la prima volta, costava 30 kes, mentre, oggi, ne costa 120, cioè il prezzo è stato quadruplicato in poco più di 20 anni, a fronte, tuttavia di salari, che sono, praticamente, restati immutati
Un altro alimento fondamentale per i kenioti è il Chapati, una specie di piadina di farina di grano, anch’essa aumentata quattro volte, già prima della guerra Russia – Ucraina. Sfortunatamente, quest’ultimo conflitto e il conseguente aumento dei prezzi, ha avuto conseguenze assai più pesanti in Africa che in Europa, e sta letteralmente mettendo in ginocchio la già traballante economia locale. Dalla somma di questi fattori, scaturisce, ultimamente, un fenomeno di emigrazione dalla costa e dalle città impoverite: un flusso contrario a quello in voga sino a sette o otto anni fa, quando vigeva l’urbanizzazione.
Per quanto concerne le cosiddette organizzazioni umanitarie, che, a turno, chiedono, attraverso i media, 9 euro, per sanare una, a loro scelta, delle tanta “piaghe” africane, non riescono ad incidere affatto, soprattutto per ciò che riguarda la penuria di generi alimentari. La realtà, purtroppo, qui è ben diversa. Di quei nove euro che vengono donati, non so quanti ne arrivino a destinazione, ma ciò che ho potuto constatare personalmente è che i fondi non aiutano affatto a sfamare la gente e che, in maniera parziale e limitatamente ad alcune zone, forniscono un aiuto nell’acquisto di medicinali. Ad aggravare la situazione in Kenya ed in tutta l’Africa orientale c’è anche la siccità che, in maniera assai più grave che da noi, è causata dai cambiamenti climatici. La recente pandemia ha portato un generale impoverimento delle già povere attività. Purtroppo, questi due fattori, ultimamente, hanno finito con l’incentivare i già esistenti conflitti tribali che causano lotte intestine per la supremazia nell’allevamento degli animali e nello sfruttamento dei pascoli.
© Foto per gentile concessione di Stefano Guidaci