Senza mezzi termini, con uno sguardo schietto e sincero, l’attore e regista Michele Coppini dichiara di essere un ipocondriaco e immediatamente dopo mi confessa, con un sorriso aperto, che si è diplomato a 23 anni perché a scuola era un ciuco. La questione che non gli piacesse studiare appare quasi marginale, quando mi dice che il suo obiettivo era far ridere la classe, ed essere ciuco era un punto di leva. Comunque, grazie all’aver fatto la primina, l’anno perso lo riconquistò e arrivò al termine delle medie inferiori in regola con l’età. “Non avevo voglia di studiare e nemmeno di lavorare. Lo dissi al mio babbo: gli chiesi quale alternativa potesse esserci. ‘Cazzotti’, mi rispose”.
Inizia così il diario del suo mestiere, con un linguaggio diretto, privo di filtri, per il quale trattengo a stento le risate. È un attore nato, la cui forza è la spontaneità. In un certo qual modo, un figlio d’arte: il padre era un cameraman televisivo e lavorava per un service fiorentino, che poi vendeva i propri prodotti audiovisivi alle tv, compresa la Rai. Lo zio lavora, tuttora, come elettricista e macchinista nel cinema.
Oltre all’ipocondria, è “malato di cinema”: i primi sintomi di questa malattia si sono palesati quando aveva 13, 14 anni, guardando film toscani in VHS e andando al cinema con il babbo, ma il periodo in cui si “infettò” risale ai sette, otto anni, quando fu chiamato per piccole parti in alcuni documentari.
Michele mi lascia il tempo di prendere nota di quanto mi sta raccontando, ma non lesina l’ennesima battuta: “Con queste pause, in cui io aspetto che tu scriva, mi sembra d’essere dallo psicologo!” e riprende a raccontare. È stata Roma, l’alternativa “ai cazzotti”: il suggerimento migliore che gli dette il padre, anzi, quella che lui definisce la “medicina migliore” che potesse prendere. A Roma scoprì la bellezza dell’italiano grazie a un professore che lo fece appassionare anche alla vita e da quel momento, mentre studiava cinema, progredì in tutte le altre materie. Non solo si innamorò dell’italiano, ma anche di una ragazza romana, divenuta poi sua moglie, che, insieme con la passione per il cinema, divenne la vera medicina e la spinta per approdare in quello che poi è divenuto il suo mondo. L’amore può tutto, come sempre.
Ma cos’è la recitazione per Michele? È mettere a servizio l’istinto: “il premio – dice lui – è sentire ridere gli spettatori in sala“. Mi chiedo e gli chiedo che ruolo giochi la vanità in tutto questo. Si passa la mano sulla testa, mi informa che si è rasato per il caldo ma, che a breve, anche barba e baffi spariranno sotto i colpi della lametta, sacrificati in virtù di una parte per un film di Gianni Pellegrini, dopodiché asserisce che per recitare non è indispensabile essere vanitosi, anche se, riuscire a vivere la vanità in maniera positiva, è uno stimolo. Quando invece diventa troppa, conduce all’insoddisfazione.
La recitazione per Michele è una valvola di sfogo: quando recita non pensa più a niente. Nelle ore in cui lavora, si trova dentro a una “bolla” che lo porta a giro per il mondo e lo estrania da tutto. Al termine del lavoro è stremato, in verità lui mi dice “cotto“, ma la sera si ricarica, “come un cellulare” e il giorno dopo riprende quota all’interno della bolla.
La sensazione è quella di un artista che vive al meglio la libertà. Me lo conferma quando parliamo del lavoro di regista e delle sue storie raccontate senza avere alle spalle un produttore, perché con un produttore quella libertà avrebbe dei limiti. La conclusione è che il film è solo suo: nel bene e nel male e in un montaggio fatto da altri, perderebbe un po’ la propria firma. Nel cinema indipendente è compresa la post-produzione, chiedo, e Michele conferma: “Anche se, detto fra noi, non è che sia così divertente la post-produzione”. In realtà usa un’espressione un po’ più colorita, che non si può riportare in modo integrale. Poi sorride, alza le mani verso l’alto, le distanzia in un gesto significativo: “AAA, cercasi montatori!”.
Foto per gentile concessione di Michele Coppini.