Clic, e quell’attimo è immortalato, fermato, cristallizzato, ma la fotografia non è solo questo per Claudio Bartoli, fotografo professionista, che si definisce un eterno insoddisfatto. È stato nel suo primo periodo lavorativo, quello che lui cataloga come “artigianale”, che Bartoli ha maturato un’importante riflessione: otteneva ottimi risultati con le persone che fotografava, ma di queste restava solo l’immagine, “erano situazioni veloci ed effimere, in cui non c’era nessuna relazione, nessun scambio emotivo, non mi sentivo appagato”.
Da quella consapevolezza nacque in lui la necessità di instaurare un rapporto con i soggetti che fotografava: una relazione che lui stesso chiama narcisistica, “quella relazione deve essere, voglio che sia, a mia immagine e somiglianza”. In verità, da quanto racconta, si evince che il narcisismo di cui sta parlando, altro non è che la ricerca di un punto di contatto con i suoi soggetti e che quel trait d’union lo trova in ciò che gli somiglia. Esplora una parte di sé attraverso gli altri, trasformando in positivo la figura negativa del narcisista.
Già nel periodo scolastico delle medie inferiori, Bartoli respira aria d’arte nella scuola di Sesto Fiorentino, in cui l’indirizzo artistico era materia di studio importante. Il suo percorso procede senza esitazioni, prima all’istituto d’arte, poi ad architettura e infine all’Accademia delle belle arti di Firenze. Man mano che parla, si delinea la strada che ha fatto e che continua a fare: una ricerca continua stimolata dal motore dell’insoddisfazione e che muove tutto il suo lavoro, la sua voglia di sperimentare. Una continua evoluzione che parte dal periodo in cui studiava pittura, le cui basi erano la cultura classica. L’amore per il corpo di uomini e donne “interi”, gli ha fatto realizzare, nel lasso di tempo in cui è stato fotografo di moda, che il suo operato era sottoposto a un vincolo ben preciso. Da qui la consapevolezza che solo la foto artistica avrebbe liberato quei corpi da orpelli e condizionamenti. “Un corpo non ha tempo, non ha una stagione”. Con un colpo di creatività ha dato vita a un’espressione artistica in cui fotografia e pittura coesistono: “I limiti che mi pone la fotografia li compenso con la pittura lavorando con il pennello sulle foto stampate su tela, mentre la fotografia compensa quei limiti che ravviso nella pittura. Ho già detto che sono un eterno insoddisfatto?”.
Il divanetto bianco nel suo studio fa pensare a un set. E la conferma arriva quando descrive il suo stato d’animo mentre scatta: “Cerco di padroneggiare come un regista, ho la mia idea iniziale, poi lascio agli attori, ai soggetti che partecipano, la possibilità di mettere il loro ingrediente, il loro contributo: la parte emotiva che può essere allegria, tristezza, disagio”. Ed è proprio il principio delle quinte teatrali, delle telette, quello che adotta in post produzione creando stratificazioni, inserendo in ogni passaggio elementi, ‘ingredienti’ che arrivino a dare l’essenza di ciò che Bartoli vuol trasmettere: creare una situazione artificiale, usando il classico per rompere il classicismo.
La figura umana diventa il contenitore: se il soggetto sembra la figura non è altro che il pretesto per focalizzare anche ciò che arriva dall’esterno, non solo, è la diversità. È quello che tanti potrebbero definire bruttezza: un viso asimmetrico, che non rientra negli equilibri della sezione aurea, o tutto ciò che esce dai canoni dell’estetica, che lo stimola di più. “La realtà è una percezione – spiega Bartoli di fronte a una foto di una donna vestita di rosso, seduta sul divanetto bianco, con un serpente ai suoi piedi e una civetta che vola in un cielo nero come la pece –. La realtà è quello che io percepisco di ciò che ho di fronte“.
Le sue foto non devono essere contemplative, devono creare emozione. In quegli scatti non cerca il compiacimento ma mette pezzi di sé stesso e le sue foto sono le sue proprie creature. Ha confessato, con un filo di voce, che, ogni volta che si separa da ciascuna di esse, dopo che hanno preso strade a lui ignote, e che verranno esposte in luoghi a lui sconosciuti, vorrebbe avere loro notizie “come fossero figli”.
Alla domanda perché abbia scelto di fare il fotografo, ha dato una risposta semplice, quasi sconcertante: “Per necessità: era l’unico strumento che mi consentisse di superare certi limiti”.
Foto per gentile concessione di Claudio Bartoli