A delimitare il largo sentiero in terra battuta in cui si trovava la panchina sulla quale ero disteso ormai da chissà quanto temo, si ergeva un cespuglio di alloro selvatico. Decisi di seguirlo con lo sguardo fino a quando non fosse scomparso tra le fronde. Ma l’animale aveva tutt’altro in mente, perché in corrispondenza del fascio di raggi solari che nel frattempo si era spostato due metri più in là, arrotolò le sue spire con un movimento suadente e silenzioso, assunse la sua classica posizione raccolta – stavolta con la testa appoggiata in posizione di riposo sul resto del corpo – e tornò nella più assoluta immobilità. A quel punto il pensiero che a salvarmi non fosse stato altro che il moto terrestre, produsse in me una specie di disappunto, come una partita vinta a tavolino. Convenni che non era il caso di sottilizzare e decisi di fuggire il più velocemente possibile, considerato anche che il perdurante stato di mancanza di testimoni avrebbe giocato a mio favore nel fornire una versione più eroica di come fossi sfuggito all’aggressione. Così raccolsi le forze e scattai. Ma il mio sforzo non produsse altro che una goffa caduta sul duro terreno sottostante, perché evidentemente l’intorpidimento dei mie muscoli non si era attenuato, come il mio cervello impanicato mi aveva fatto credere. Dovetti aver battuto anche la testa su qualche sasso sporgente, perché avvertii una fitta tremenda alla tempia, accompagnata da altro sangue che colava e, immediatamente dopo, la sensazione di aver un trapano a percussione che stesse provando a perforare il mio lobo frontale. Tornai per un attimo a tutto quello che di nobile avevo pensato sul serpente e sulle sue movenze: me lo immaginai ridere di cuore mentre si avvicinava da dietro per assestarmi il morso fatale, degna conclusione di una acuta strategia di caccia. Allora cercai di rimettermi in piedi, nella disperata intenzione di sfuggire al mio destino, ma riuscii soltanto ad avanzare di qualche centimetro, trascinandomi pateticamente sui gomiti, prima di stramazzare definitivamente a faccia all’ingiù. Arreso all’incapacità di muovermi, decisi, allora, di voltarmi verso il serpente che stava avanzando, per guardare quei suoi piccoli, orribili, inespressivi occhietti neri per un’ultima volta. Sì, li avrei fissati come all’inizio. Poi avrei osservato il lento movimento indietro della sua testa e, subito dopo, l’attacco: quindi la fitta, la sensazione di freddo nelle vene, l’appannamento della vista, la perdita di sensi e il gran finale. Pensai ai condannati a morte e a tutti quelli che devono vivere con lucidità gli ultimi istanti della loro vita. Provai un orrore smisurato, condivisi con loro l’angoscia di una consapevolezza senza speranza. Non avevo neanche la forza di urlare. Gli attimi erano così colmi di emozioni che li potevo sentir scorrere, come il passare dei secondi viene scandito dalle lancette di un orologio. Attimi in cui l’anima diventa enorme e tenta disperatamente di catapultarsi fuori dal corpo per cercare altrove di prolungare la propria esistenza. Una matassa gigantesca di sentimenti, sensazioni, di cose che avrei voluto dire, di cose che avrei voluto fare. Ebbi un conato di vomito e sentii che me la sto facendo nei pantaloni. Lo sforzo che affrontai per voltare la testa di quel tanto che bastava per guardare il serpente, mi sembrò sovrumano, ma alla fine ci riuscii e aprii gli occhi. Tutto quello che vidi, fu un serpente arrotolato su se stesso a crogiolarsi nel sole di aprile a poca distanza da me, senza essersi mosso di un solo centimetro e per il quale quell’essere disteso in terra, sanguinante, sporco di vomito e di urina non aveva alcun significato. Credo sia stata la felicità pura a farmi svenire. Non la stanchezza o il dolore fisico, ma la forza della vita nella sua desinenza più intima. L’ultima immagine che ricordo, prima del risveglio in ospedale dove mi raccontarono che, durante il mio pisolino, un furgone pieno di serpenti destinati al nuovo rettilario in costruzione, aveva avuto un rovinoso incidente ribaltandosi e perdendo il suo carico proprio nei pressi del giardino, causando l’evacuazione della zona e una gigantesca caccia al serpente durata ore, è propria quella di alcune figure dai contorni sbiaditi che si avvicinano brandendo qualcosa di simile a delle aste. L’ultimo pensiero, invece, fu quello di aver riconosciuto a quell’animale la capacità di avermi spaccato in due l’anima, come niente e nessuno avrebbe più potuto fare in futuro.
Illustrazione di Sofia Mussi della classe 5A del liceo artistico Artemisia Gentileschi di Carrara. Studia canto da diversi anni, e coltiva da sempre la passione per il mondo dei fumetti e per la musica, in particolare rock e metal. Nel tempo libero si dedica alla fotografia e al teatro. Dovrebbe imparare a dormire di più.