Nell’alto Medioevo, con lo sviluppo della rocca di Castiglione, antico castrum latino poi riedificato come Castrum leonis (Castello del Leone) da cui deriva il toponimo, e a causa delle lotte feudali che vedevano i lucchesi contrapposti ai pisani e fiorentini in un gioco di alterne fortune, l’accesso al valico di collegamento tra Modena con Lucca fu spostato da Castiglione a Castelnuovo di Garfagnana. Da lì, tramite Pieve Fosciana, si giungeva a San Pellegrino in Alpe, che confluiva ugualmente nel Passo delle radici, allora chiamato passo di San Pellegrino in Alpe. In quel sito, all’epoca, nacque un importante ospedale, già sede del santuario di devozione dei santi Pellegrino e Bianco, e l’antica via Francigena. I due santi sono sepolti nella chiesa a San Pellegrino in Alpe, il paese più elevato dell’appennino Tosco-Emiliano, sotto l’abside, con la testa in provincia di Modena e i piedi in provincia di Lucca.
Dopo la presa di Apua da parte dei romani, Luni divenne la sede più importante della regione e quando nacque la diocesi di Luni, questa si estese su quello che era stato l’antico territorio apuano. La diocesi lunense, istituita nel IV secolo, ripercorse tutto il territorio dell’antica Apua e tutto il displuvio tirrenico dell’Appennino ligure-emiliano, inclusa la Garfagnana, come se l’unità linguistica riunisse ancora tutti i villaggi di quell’antico territorio. Nei secoli successivi questa ampia area diventò la parte della cosiddetta Lunigiana storica: un’area che rappresentava una zona a struttura linguistica comune, caratteristica che si mantenne nonostante l’arrivo del latino che apportò un addolcimento capace di variare localmente, in maniera diversa, nei secoli successivi sino ad oggi. I termini liguri e celtici, pian piano, però, vennero, in parte, dimenticati, mentre rimase la fonetica, che non trovava, tuttavia, un corrispettivo grafico. Gli antichi Ligures, popolo culturalmente analfabeta per motivi religiosi – solo i sacerdoti sapevano scrivere – non riuscirono mai a tradurre in grafemi i loro suoni, diversi da quelli del latino cosiddetto classico, caratterizzato dai suoni duri dell’epoca della invasione romana. I celto-liguri continuavano a restare analfabeti. Quando l’impero romano cadde, i successivi apporti linguistici modificarono, ulteriormente, la lingua latina, soprattutto per l’intonazione, la fonetica, i caratteri lessicali e la sintassi. Questi apporti linguistici, sovrapposti alla lingua preponderante, sono stati definiti come “superstrato”, ovvero un apporto che non sostituisce la lingua presente, ma che la modifica soltanto, come un’onda che, superati gli scogli, si esaurisce dolcemente.
Mi piace fare una nota interessante sul parlato dimenticato. Parlando con un anziano carrarino che amava camminare sulle nostre montagne, mi rammentava con nostalgia i suoni del lavorìo dei cavatori, quel ticchettio costante, come se la stessa montagna cantasse, quel chiamarsi da una parte all’altra della cava, quei termini unici che identificavano oggetti e azioni, oggi persi dal frastuono dei mezzi pesanti che trucidano il monte, sfregiandolo facilmente. L’antico linguaggio, la fatica, ma anche il rispetto che la stessa natura pretendeva, oggi è merce inutile.