Ironman è il suo soprannome, ma in realtà è il nome di una durissima gara di triathlon che prevede un percorso articolato in quattro chilometri a nuoto, 180 chilometri in bici e 42 chilometri di corsa e Massimo Musetti, di gare Ironman, ne ha portato a termine ben tre, a Copenaghen, a Maastricht e a Klagenfurt. Da qui, dunque, il soprannome, che ben si è adattato anche alle sue molte imprese nello sci di fondo, sport nel quale ha disputato oltre 200 gare in tutta Europa, tra cui 22 Vasaloppet, cioè la gara di 90 chilometri più importante del mondo, per la quale Musetti è uno dei quattro italiani che l’hanno disputata più di 20 volte. Ma la storia sportiva di Massimo Ironman Musetti parte da molto lontano e da molto prima dello sci di fondo e del triathlon. Ad accendere la scintilla dell’amore per lo sport nel campione carrarese, fu, negli anni ’70 e ’80, il basket: scelta quasi condizionata da un fisico, che con un metro e 98 metri d’altezza era perfetto per quello sport, ma anche sua prima, grande passione. Dalle giovanili nel Carrara Basket alla serie B, quando veniva convocato per la Nazionale cadetti, poi a Livorno con la promozione in A, a Firenze e La Spezia sempre in B e poi di nuovo a Carrara, ma nelle file dell’Audax: per 20 anni Musetti ha calcato i parquet toscani e non solo. Anni di dedizione allo sport, che non gli hanno impedito di diventare uno stimato commercialista, e che gli hanno dato quell’imprinting necessario per affrontare, poi, sport duri e pesanti come quelli in cui si è cimentato con successo. Del periodo del basket, Massimo Musetti, ha conservato, tra i tanti, il ricordo della stagione in cui, probabilmente, giocò ai suoi più alti livelli e di quella stagione ha raccontato a Diari Toscani
Qual è il campionato che le è rimasto nel cuore?
Il campionato 1991-’92 in serie C con l’Audax. Una stagione in cui avevamo stra-dominato e nella quale io sono stato il miglior realizzatore di tutto il campionato.
Cosa aveva di speciale quella squadra?
Era una squadra che giocava una pallacanestro di matrice chiaramente “jugoslava”, fondata sull’istinto e sulla libertà del gioco in attacco. Il merito principale era del coach, Leonardo Costi, che l’aveva forgiata privilegiando un’organizzazione fondata su pochi, ma efficaci concetti.
Come vi allenavate?
Facevamo quattro allenamenti a settimana, alla palestra Dogali, una sorta di santuario della pallacanestro carrarese. Gli allenamenti erano imperniati, per lo più, su partite tra due quintetti misti tra titolari e riserve. Io facevo anche un supplemento di atletica e di pesi sotto la guida del preparatore, il professor Cantoni
Da chi era composta quella squadra?
Eravamo completi in ogni reparto: molto forti sotto canestro con Larry Sacchi, Bellavista e il sottoscritto. Per gli esterni c’erano Giorgio Viaggi, Francesco Begali e Danilo Gioan e a guidare il gioco c’era il play-maker Stefano Pezzica con i suoi passaggi smarcanti Viaggi e Begali avevano anche il ruolo di equilibratori in campo a bilanciare l’esuberanza degli altri. Begali fu, poi, l’autore di una grande prestazione nella partita che sancì la vittoria del campionato.
Quali partite sono state più significative per lei?
Le due con il Montevarchi che era la nostra principale avversaria per la promozione. Ricordo che vincemmo in casa e dominammo in trasferta in un palasport gremito con una partita in cui io segnai 42 punti e Gioan 31. Fu una prestazione ad alto livello da parte di tutti e, infatti, uscimmo tra gli applausi.
In quell’annata, lei venne convocato anche nella partita All Star Game Toscana…
Sì, insieme a Gioan e al coach Costi che sedette sulla panchina di una delle due squadre di All Star. In quell’occasione venni premiato come il miglior realizzatore dell’incontro.
Lei giocava sotto canestro ma aveva anche un grande tiro da tre punti…
Dopo l’allenamento mi fermavo fino a tardi, da solo, per continuare ad esercitarmi nel tiro dalla distanza. Lo facevo ogni volta: per questo motivo il custode mi aveva lasciato la chiave della palestra.
La determinazione e la pratica di allenamenti mirati e performanti erano già sue caratteristiche …
Sì. La cultura del sacrificio nello sport l’ho appresa sin da adolescente. Ho dovuto spesso forzare il mio fisico per fare sempre meglio o per recuperare dagli infortuni convivendo con il dolore fisico. Tra i 18 e i 20 anni ho subito due operazioni alle ginocchia i cui postumi mi hanno limitato per alcuni anni. Ma è chiaro che i presupposti per diventare uno sportivo di endurance erano già ben radicati anche quando giocavo a basket.