Le phisique du role, indubbiamente, lo aveva: alto, ben piantato, possente, Amedeo Nazzari poteva passare tranquillamente per un cavatore, non fosse stato per quel volto curato, i baffetti alla Clark Gable e i capelli sapientemente ondulati e impomatati. Era il 1937: Amedeo Nazzari aveva 30 anni ed era già un attore famoso, sebbene la grande notorietà la raggiunse negli anni immediatamente successivi con il film Caravaggio, il pittore maledetto, che gli valse la Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia, nel 1941, e con il film La cena delle beffe, nel quale disse la celeberrima battuta “…e chi non beve con me, peste lo colga!” rimasta, per anni un tormentone popolare, ripresa anche da uno spot pubblicitario interpretato dallo stesso Nazzari. A Carrara, dunque, lo portarono la sua fama di attor giovane, il suo indiscusso fascino, valorizzato proprio in quegli anni da interpretazioni di personaggi in divisa e, appunto, il suo fisico da cavatore. Il film era “La fossa degli angeli”, un soggetto tratto dal dramma “Marmo” scritto dall’autore carrarese Cesare Vico Lodovici e dedicato al durissimo lavoro degli uomini nelle spietate, ma suggestive cave di marmo di Carrara.
La sceneggiatura venne curata dallo stesso Lodovici insieme al regista del film Ludovico Bragaglia, a Curt Alexander e a Roberto Rossellini, all’epoca giovane assistente alla regia e amico personale di Lodovici, che fu anche suo testimone di nozze. Il titolo avrebbe dovuto restare lo stesso del testo scritto da Lodovici, ma fu proprio lui, a malincuore, ad accettare il più popolare “La fossa degli angeli”, spiegando che il titolo “Marmo” avrebbe fatto pensare a un documentario. Ma una certa impostazione documentaristica, in effetti, il film ce l’aveva, tanto che, proprio per questo non venne accolto favorevolmente né dal pubblico, né, in buona parte, dalla critica. Il regista Bragaglia definì il film una sorta di antesignano del filone neorealista che, nell’immediato dopoguerra farà la fortuna proprio di Roberto Rossellini e continuò ad indicarlo come la sua opera più importante. Il film, prodotto dalla Diorama, società nata e morta con quel solo titolo, venne girato a Carrara dal novembre del 1936 a maggio del 1937. Tutte le scene furono ambientate nello scenario delle cave, salvo brevi e rare eccezioni girate negli studi cinematografici di Tirrenia. Per gli interni vennero scelte abitazioni tipiche locali e non ricostruzioni in studio e vennero ingaggiati sia come comparse, sia come attori in ruoli minori, molti veri cavatori, al cui modo di fare e di parlare si conformare anche gli attori professionisti, per rendere più drammatico ed efficace il film. La scelta di Carrara come tema e ambientazione del film derivava dalla campagna di valorizzazione delle ricchezze italiane impostata dal regime fascista che, solo pochi anni prima, nel 1934, aveva celebrato la straordinarietà delle cave carraresi con lo strepitoso successo della Prima Fiera del marmo. All’inizio delle riprese venne organizzata anche una vera varata, cioè l’estrazione di un blocco di marmo mediante l’uso di cariche di dinamite, una tecnica che, già nel 1936 veniva pratica solo in casi eccezionali perché troppo devastante rispetto al materiale da estrarre e anche assai pericolosa. La varata autentica ripresa nel film venne realizzata sul monte Tecchine, nel bacino di Ravaccione e causò una frana di 75 milioni di quintali di marmo.
La storia racconta la rivalità tra due cavatori, uno dei quali è Nazzari, per l’amore di una donna, interpretata dall’attrice Luisa Ferida, che terminerà con la tragica morte di uno dei due, ma la trama è l’espediente per portare sul grande schermo la realtà di un ambiente di lavoro duro e pieno di drammi come quello delle cave. Un primo tentativo di cinema come denuncia sociale, assolutamente innovativo per l’epoca e forse per questo non sufficientemente compreso dal gusto popolare che, in alcune occasioni, come nella proiezione al cinema Corso di Roma, arrivò a fischiare e a contestare il film, che venne interrotto e sospeso.
Il film, che è andato perduto, ebbe un numero di spettatori molto basso e venne riconosciuto come un flop anche dallo stesso Nazzari, che, tuttavia, cominciò ad amare il mondo duro delle cave tanto da tornare ad interpretare un cavatore nel più fortunato e famoso “I figli di nessuno” negli anni ’50. Tra le poche cose apprezzate dalla critica ci furono le riprese di particolare potenza che mettevano in luce la bellezza delle cave di Carrara.